NAZIONE NAPOLETANA
DUE SICILIE

PERIODICO INDIPENDENTE DELLE DUE SICILIE

Anno IV - Numero 2 - Marzo 1999 - 139° anno di occupazione

Nnapule

______________________________________________________________________________________________

Sommario :
____________________________________________________________________

Giuramento Sacro

Le ipocrisie di Scalfaro

Civitella del Tronto, 20 /21 marzo 1999: XXIX incontro tradizionalista

Attraverso le Due Sicilie: FURORE

Largo ‘e Palazzo

L'Euronave senza rotta

L'ecologia ipocrita: la Riserva Marina di Maratea

Due secoli di lotta per l'indipendenza della Sicilia
____________________________________________________________________

GIURAMENTO SACRO

Il fenomeno di un popolo che in notevole misura si rivolta contro sé stesso e la propria patria è un fenomeno infernale e scoraggiante, foriero di ogni possibile sventura civile.

Comunemente si ritiene che le gravi emergenze sociali costituiscono il problema principale del Sud, ma questo è assolutamente falso. Il problema principale del Sud è la mancanza di una coscienza civile, perché se c'è una coscienza, rimboccandosi le maniche, animati dall'amor proprio, la forza e l'intelligenza di rimediare alle difficoltà materiali si trova. Se invece non c'è coscienza civile, allora non rimane che emigrare, portandosi dietro l'incivile avversione verso la propria terra o attendere eternamente le elemosine dagli altri.

A questo punto credo sia necessario cercare di capire le ragioni di questo sradicamento che ha colpito gravemente i meridionali. Ovviamente in questa sede accennerò solo ad alcuni aspetti.

La prima considerazione da fare è che questo fenomeno è iniziato, presso le classi colte del Sud, da almeno due secoli, da quando cioè ci si è rivoltati contro le tradizioni patrie per ricercare altrove le improbabili sorgenti della civiltà. È evidente poi che questa tendenza perversa, non contrastata, si è dilatata a dismisura, divenendo patrimonio genetico, e contagiando infine anche le masse. Tuttavia è solo negli ultimi decenni che il risentimento antisudista dei meridionali si è costituito in vera e propria ideologia e modo di essere. È evidente che in questo processo di alienazione intellettuale la storia, o meglio la storiografia, ha avuto un peso determinante.

I meridionali succhiano dal latte materno, prima ancora che dalla scuola, l'intimo convincimento che la storia del Sud fino al Risorgimento è stata del tutto negativa. Sorvolando sul periodo borbonico, che è addirittura considerato come il termine fondamentale di paragone per significare qualcosa di assolutamente incivile, le epoche precedenti sarebbero state una serie di rovinose dominazioni straniere. Poi sono venuti Garibaldi e Vittorio Emanuele ed un raggio di luce avrebbe finalmente rischiarato il Sud, producendo una ventata di presunto rinnovamento che ha visto la partecipazione determinante di molti autorevoli personaggi meridionali. Almeno questa «epopea», dunque, dovrebbe costituire un motivo di orgoglio per i meridionali, invece non difendono nemmeno questo periodo. La ragione è semplice: se da un lato la scuola magnifica le «gesta» di Garibaldi, dall'altra la memoria familiare ha impresso nell'animo le sofferenze e le miserie economiche e sociali di quest'ultimo secolo.

Apparirebbe una contraddizione, ma la storiografia ha pronta la giustificazione: il Sud paga ancora il retaggio disastroso dei secoli passati. Allora si può comprendere perché nell'immaginario collettivo dei meridionali il quadro sia veramente sconfortante.

Se nemmeno l'epopea garibaldina, che viene assunta a modello delle imprese generose della storia, non è riuscita a porre alcun rimedio, allora si comprende perfettamente la sfiducia e la rassegnazione definitiva dei meridionali.

I Meridionali pertanto non hanno nel loro interno alcun riferimento storico positivo in riferimento alla propria terra.

La memoria di un grande passato può far sopravvivere fiero e rispettato il piú disastrato dei popoli. I barbari andavano fieri delle tradizioni insignificanti dei loro popoli perché avevano una grande energia interiore e dunque difendevano a spada tratta ciò che era loro. Il meridionale, invece, nella sua testa e nel suo cuore non ha totalmente nulla. Questo cancro, che per la verità ha colpito tutta l'Europa, ha annichilito particolarmente il Sud, per le circostanze storiche disastrose del 1860.

Certo ci sono molti meridionali che si sforzano di raccontare la verità. Ci dovrebbe essere dunque un risveglio, uno scatto di orgoglio dinanzi alla scoperta sconvolgente della menzogna in cui ci hanno costretti. Invece la stragrande maggioranza dei meridionali giudica i «borbonici» con una sufficienza estrema, perché ritengono che i loro sforzi appassionati sono paradossalmente una conferma della realtà storica negativa del Sud. Giudicano i discorsi storiografici «filoborbonici» come una finzione patetica nel tentativo disperato di recuperare qualcosa di positivo nella storia del Sud.

Dinanzi a questo panorama di rovine e di macerie cosa rimane da fare? Giurare odio eterno contro la menzogna risorgimentale. Dobbiamo dunque concentrarci e consacrarci totalmente alla lotta antirisorgimentale, nella considerazione che il risorgimento è il male assoluto.

Dobbiamo parlare, scrivere, predicare, seminare, martellare, senza stancarci mai, senza temere di apparire alla lunga noiosi. Dobbiamo solo ed esclusivamente dire la verità, senza esagerazioni, e dunque squadernare cosa è stato il risorgimento e mostrare la grande dignità e grandezza del nostro passato storico. E poi dobbiamo a tutti i costi sfornare libri. Nei meridionali qualcosa di positivo è pur rimasto. Ebbene uno di questi aspetti positivi è il fatto che i meridionali hanno ancora istintivamente il mito della cultura. Per un meridionale uno che ha scritto un libro è degno di rispetto e di ascolto.

Dobbiamo far comprendere ai meridionali che la causa del Sud è difendibile. Se mostreremo loro l'esempio di un impegno costante ed appassionato a difesa del Sud nei loro animi si farà strada il convincimento che in questa causa c'è necessariamente qualcosa di difendibile.

____________________________________________________________________

LE IPOCRISIE DI SCALFARO

I signori onorevoli non perdono occasione per rinforzare propagandisticamente il culturame che sostiene il loro potere.
L’ultimo dell’anno, la televisione di Stato, insieme alle televisioni di Berlusconi, ha trasmesso a reti unificate la consueta predica di Scalfaro agli italiani.
Uno dei temi «forti» dell’intervento è stato il racconto, piú o meno patetico, dei suoi incontri con gli italiani, ovvero con i meridionali residenti all’estero.
Il solito intento moralistico del presidente della repubblica tricolorata è stato quello di veicolare il valore dell’«unità» tra italiani, testimoniato questa volta dagli appelli commossi e nostalgici dei nostri emigrati.
Il presidente non ha ritenuto opportuno, però, ricordare come mai milioni di meridionali se ne sono andati ad affollare i sottoscala di mezzo mondo nel corso di questi centoquaranta anni di «fraterna» unità italica.
Questa sensibilità non appartiene certo alla formazione culturale di Scalfaro, antico compagno di mille battaglie di quell’Alcide De Gasperi che negli anni cinquanta, dinanzi ad una grave e pressante richiesta di lavoro da parte di un manipolo di lavoratori calabresi, consigliò loro, molto unitaristicamente, di fare le valigie e di andarsi a cercare il lavoro all’estero.
Scalfaro non ha ricordato che la sua Italia «unita» è sorta dall’odio tra italiani, e dai fraterni massacri dei soldati «italiani» nei riguardi del Sud e della sua gente.
Scalfaro non ha ricordato che la sua Italia «unita» vede lo scandalo, assolutamente unico al mondo, di un territorio tra i piú ricchi d’Europa contrapposto ad un altro tra i piú poveri e sgangherati del continente.
Scalfaro non ha ricordato che la sua Italia «unita» non permette che il Sud abbia una sua economia, cosí come avviene per un qualsivoglia altro territorio.
Non solo nasconde la verità, ma si permette pure di fare del moralismo strappalacrime per imbonire ancora una volta gli italiani ed i nostri emigranti, i quali esistono solo per sventolare le bandierine tricolorate e far da codazzo a lorsignori onorevoli nelle manifestazioni all’estero.
Il potere, grazie anche all’antimeridionalismo irriflessivo della Lega, propaganda la contrapposizione in Italia tra forze politiche buoniste, che predicano pace e concordia tra gli italiani, e cattivi, Leghisti e Sudisti, che invece vogliono portare la «divisione» nella comune matrigna Italia.
Sta per uscire dalle nostre «scuderie» un libro emblematico, I LAGER DEI SAVOIA, per far conoscere agli italiani e alla nostra gente sparsa per il mondo chi sono i veri criminali in Italia.
Grazie a Dio sono sempre piú i nostri emigrati che iniziano ad aprire gli occhi sulla loro identità nonostante i lavaggi di cervello in senso tricolorista che hanno dovuto subire, dopo essere stati scacciati a calci nel sedere dall’Italia «una e indivisibile» di Scalfaro.
La verità è che spetta a noi antirisorgimentalisti radicali di ricucire sentimenti di concordia civile tra italiani., dopo i veleni sparsi a piene mani tra meridionali e settentrionali da lorsignori onorevoli «unitaristi» e tricolorati, fin da quel maledetto 1860.

Edoardo Spagnuolo

_____________________________________________________

 

Civitella del Tronto, 20/21 marzo 1999: XXIX Incontro Tradizionalista

Civitella Del Tronto © Nazione Napoletana 1999

 

Civitella

Mi ero lasciato alle spalle le ultime case di Civitella del Tronto e salivo verso la Fortezza dopo aver già superata la prima cinta di mura. Attorno a me i bastioni sventrati dalle palle del cannone piemontese si alternavano alla solida resistenza che la Fortezza offriva ancora. Ero giunto al corpo di guardia e notai che il cancello era chiuso, ma all’interno vi era movimento. C’era qualcuno, Mi fermai perplesso. La giornata di quella metà di marzo era luminosa: il sole esaltava il candore delle nevi che imbiancavano l’imponente Monte dei Fiori, ma faceva un gran freddo. Provai una strana suggestione. Ero emozionato perché mi trovavo nell’ultima roccaforte del legittimismo napoletano. Tutta l’Europa conosceva l’epica resistenza di pochi uomini che, per tutto l’inverno, avevano tenuto in scacco l’invasore ritardando la proclamazione del regno d’Italia. Al di là del conflitto militare, a Civitella si era consumato un piú ampio e profondo duello: la Tradizione si era scontrata con la modernità e ne era conseguito un inevitabile conflitto. La mente cominciò a ragionare e tutto mi fu chiaro.

In quel preciso istante sentii dietro di me un gran vociare. Mi girai e vidi avanzare una massa umana. Uomini in uniforme si alternavano a donne, bambini, persone dagli abiti civili. Alzavano bianchi vessilli ed erano festosi. Pensai che l’Esercito delle Due Sicilie doveva essere stato poco guerrafondaio se aveva conservata l’abitudine di combattere portandosi al seguito le famiglie al completo dei propri componenti. «Alto là! Chi va là» sentii improvvisamente urlare dalla cancellata. Non afferrai la risposta perché la marea umana era chiassosa. Istantaneamente si ammutolí. «Dite il santo» proseguí la voce che veniva dall’interno del corpo di guardia. «Napoli» fu la risposta dell’ufficiale che era a capo degli arrivati. «San Gennaro» replicò la voce della Fortezza. Il cancello si aprí ed uscirono due ufficiali del 3° Reggimento di Fanteria «Principe». Uno dei due presentò la forza e concluse «Morale alto, Civitella resiste ancora». Un urlo di gioia proruppe da tutti i presenti e l’eco fu sentito in tutta la Val Vibrata. Stavo assistendo ad uno spettacolo unico. Qualcuno mi avvicinò e mi raccontò cosa era accaduto.

Dopo l’incerta giornata del 1° ottobre al Volturno, conclusasi con una sostanziale parità, la sorte era stata favorevole ai regi il giorno successivo. Il Maggiore Domenico Nicoletti, al comando del 6° Reggimento di Fanteria «Farnese», aveva sconfitti i garibaldini a Caserta. Era tornato indietro verso Santa Maria. Aveva ingaggiata una nuova battaglia rialzando il morale di tutta l’Armata Napoletana. Garibaldi, Bixio e tutto lo stato maggiore garibaldino erano caduti prigionieri ed erano stati portati, sotto buona scorta, a Gaeta. Quindi l’Armata aveva marciato su Napoli: erano stati rioccupati i Ministeri, e definitivamente sconfitta la rivoluzione. Don Liborio Romano, per sottrarsi alla giusta punizione, aveva tentato il suicidio gettandosi in un pozzo. Ma, essendo questo privo d’acqua, si era procurato soltanto delle leggere ferite alla testa. Tempestivamente soccorso e medicato, era stato rinchiuso nel carcere di Santa Maria Apparente assieme ai camorristi. Il Re aveva punito la Guardia Reale che al Volturno si era comportata con codardia ed era rientrato a Napoli scortato esclusivamente dal 9° Reggimento di Fanteria «Puglia», cavalcando a fianco del suo comandante, Girolamo De Liguoro, promosso in quei giorni Generale di Brigata. De Liguoro, infatti, quando il Re si era trasferito a Gaeta, era uscito dalla Capitale il giorno successivo, 8 settembre, dignitosamente, con i tamburi, le fanfare e le bandiere in testa al Reggimento e lo aveva condotto a Capua. Il Re aveva ritenuto giusto premiare la fedeltà del valoroso Reggimento, facendolo rientrare al suo fianco e con tutti gli onori nella Capitale. Poi aveva affidato al Generale De Liguoro l’alto onore di giungere negli Abruzzi e soccorrere la Fortezza di Civitella del Tronto. Il Reggimento era stato fermato dalle abbondanti nevicate ed aveva potuto raggiungere la Fortezza soltanto a metà marzo. Giungendo aveva incontrato l’esercito piemontese in rotta ed aveva arrestato il traditore Mezzacapo, che tanto filo da torcere aveva dato alla Fortezza.

Quel che ascoltavo aveva dell’incredibile perché conoscevo un’altra versione della storia e sapevo che le cose non erano andate proprio cosí. Mentre mi dibattevo nel dilemma, mi accorsi che nessuno mi aveva avvicinato per raccontarmi questa storia. Era stata la voce della coscienza a prendersi gioco di me, facendomi vagheggiare ad occhi aperti. Era stato un bel sogno, soltanto un bel sogno ...

Ero effettivamente attorniato da tanta gente e da due Capitani dell’Armata delle Due Sicilie e mi trovavo a Civitella, per partecipare al XXIXº Incontro Tradizionalista. I due Capitani erano reali e fanno parte del Raggruppamento Storico Militare «Alfiere Carlo Giordano», che ripropone i costumi dell’Armata Napolitana del 1860. Trovo molto bello far rivivere nella memoria del Raggruppamento Storico Militare il nome di Carlo Giordano perché in tal modo il suo ricordo contribuirà a restituire orgoglio e dignità al presente del Sud. Carlo Giordano nel 1860 era un giovane allievo della Nunziatella. Nell’ottobre di quel maledetto 1860 il ragazzo scappò dal Collegio per raggiungere suo fratello maggiore, il Tenente Gaetano Giordano, a Gaeta. Promosso Alfiere di Artiglieria fu addetto in un primo tempo allo Stato Maggiore della sua Arma e dalla fine di dicembre assegnato alle batterie Malpasso e Trabacco. Poche ore prima della firma della capitolazione di Gaeta, il 13 febbraio 1861, scoppiò il Deposito di munizioni della Batteria Transilvania e Giordano rimase ucciso insieme al collega Pannuti. Il 27 febbraio avrebbe compiuto diciotto anni.

Da anni salgo alla Fortezza con i miei amici. Nella domenica piú vicina alla data in cui terminò l’eroica difesa, il tradizionalismo politico si è dato appuntamento a Civitella del Tronto per celebrare una visione della storia e della vita che esalta la Fede quale colonna vertebrale della realtà sociale. Contro il mito della volontà generale che oggi incontriamo nella manipolazione del suffragio elettorale che propone ideologie che si affermano, si negano, si nascondono e riappaiono, il Tradizionalismo sacralizza la storia in quanto figlia della Provvidenza. In questa prospettiva ricordare il mondo dei vinti non ha mai voluto significare accettare la sconfitta. Assolutamente NO: la guerra è permanente e la sconfitta, definitiva, totale e risolutiva giungerà quando la rivoluzione sarà finalmente debellata dal cuore e dalla mente dell’uomo e della società. Sino ad allora potremo anche perdere altre battaglie, ma non saremo mai sconfitti. Perché non ci arrenderemo mai. Quindi il grido di guerra dei due Capitani che presidiano il Forte di Civitella è anche nostro e lo ripeteremo sempre, sino alla vittoria finale:

«CIVITELLA RESISTE ANCORA»

Francesco Maurizio Di Giovine

____________________________________________________________________

 

Attraverso le Due Sicilie: FURORE

Furore - Costiera Amalfitana -Nazione Napoletana © 1999

 

Furore
Come disse Vittorio Paliotti: Furore è un paese che non c'è ... «Ma è poi un paese Furore? Ha un municipio, questo sí e ha abitanti, anche se in numero di appena ottocento. Ma non è facile definirlo ”paese“. Secondo il lessico geografico, Furore è uno ”sparso abitato“. Questo significa che le sue case non stanno affatto l'una dietro l'altra o l'uno accanto l'altra, bensí spuntano da costoni di roccia. E se proprio vogliamo riconoscere un paese nel senso tradizionale dell'espressione, non possiamo che riferirci a una strada a tornanti scolpita nel verde della montagna, delimitata dal grigio della roccia e stagliata nell'azzurro del mare: quella stessa strada, la statale Agerolina, che, da un'altitudine di 650 metri, dopo aver valicato i Monti Lattari staccandosi dall'Autostrada a Castellammare di Stabia, scende ad Amalfi...».

Furore, con i suoi panorami mozzafiato, con il suo clima dolcissimo, è un autentico paradiso, per fortuna ancora sconosciuto al turismo di massa. La località fu chiamata Furore per la particolare furia del mare che, nei giorni di tempesta, si abbatte sulla scogliera producendo rumori veramente terribili. Fu anche per questo che, anticamente, i tormentati anfratti e le grotte preistoriche di queste terre furono avvolti in un alone di mistero e di magia. Ancora adesso suggestivi ruderi e antiche sorgive richiamano un passato misterioso e tragico insieme.

Caratteristico di Furore è il suo fiordo che si incunea tra Conca dei Marini e Praiano. Ad esso si può accedere attraverso una spettacolare «scalinatella», attraverso il suggestivo villaggio dei pescatori con le sue case aggrappate alle rocce, ma l'arrivo dal mare, passando in barca sotto un pittoresco ponte, mostra tutto lo splendore di uno spettacolo veramente magico e unico al mondo.

Il primitivo insediamento fu fondato, sembra, dalla gente che in questi luoghi si rifugiò per meglio difendersi dai barbari e divenne inattaccabile in seguito anche dai Saraceni. Il fiordo, tuttavia, era anche un porto naturale che permise in seguito agli abitanti di svolgere fiorenti traffici, consentendo anche di sviluppare le antiche forme di industria, quali le cartiere e i mulini che venivano alimentati dalle acque del ruscello Schiato.

La bellezza di Furore ha naturalmente ispirato moltissimi artisti, soprattutto stranieri. Dal 1980 i muri delle case furono abbelliti da pitture e sculture, che, impreziosite dalle stupende cornici naturali, incominciarono a suscitare l'ammirazione anche dei piú sprovveduti turisti, tanto che si moltiplicarono in pochissimo tempo. Quelle splendide immagini pittoriche fanno di ogni muro di Furore una galleria d'arte contemporanea ineguagliabile firmate dagli artisti piú famosi.

Ma non dobbiamo dimenticare che a Furore esiste un validissimo artigianato che ha origini antichissime. Una volta, infatti, non esisteva una casa che non avesse il tornio per la lavorazione del legno e del corno, e il telaio. Attualmente sono apprezzatissimi gli oggetti in argento ed i ricami fatti a mano con antica perizia dalle donne.

Furore è un paradiso anche per un'altra sua specialità: la cucina, i cui sapori sono veramente divini per la miscela di profumi di terra e di mare. Alla base di questa cucina vi sono i pomodorini di montagna, l'olio d'oliva, le tipiche patate di terra asciutta, le acciughe, le melanzane, i profumatissimi e corposi vini, i limoni e le erbe odorose. Questi ingredienti sono coltivati nei campi a terrazze, tra l'ulivo e la vite che si contendono lo spazio alle rocce.

La ricettività alberghiera e dei ristoranti è veramente ottima, per cui se volete visitare questo paradiso potete chiedere informazioni alla gentilissima ed efficiente Pro Loco di Furore (Salerno), via Mola, 39 - tel./fax: 089.874491

Antonio Pagano

____________________________________________________________________

 

Largo ’e Palazzo

Palazzo Reale_________

Chi ha avuto, ha avuto

e chi ha dato, ha dato,

(ma nun) scurdammoce ’o passato:

simme ’e Napule, paisà
_________

Gennaro : Neh, Vicié, hê viste ca mo ’o guvierno taliano penza pur‘ ’a salúta nosta e nce ha mise ’a tassa contr‘a ll‘inquinamento?(Vincenzo, hai visto che adesso il governo italiano vuole salvaguardare la nostra salute e ha messo una tassa contro l’inquinamento?).

 

Vicienzo : Ma qua‘ nquinamento! Sta tassa l’hanno mise ncopp‘ô gas e â benzina verde, propeto chille cchiú «puliti»! E po‘, pe nce piglià p‘ ’o culo hanno ditte ca sta tassa serve a diminuí ’a pressione fiscale e a diminuí ’o costo d‘ ’o lavoro. ’O vvoglio propeto veré comme fa a diminuí ’o costo d‘ ’o lavoro quanne ’o gasso pe ll‘autotrazione aumenta ’e 40 lire! Nce vonne strunzià? (Ma quale inquinamento vogliono contrastare! la tassa è stata messa proprio sui combustibili piú ... «puliti»! Hanno detto che servirà a diminuire la pressione fiscale ed il costo del lavoro, quando invece l’aumento dei costi produrrà proprio effetti opposti. Ma ci prendono per cretini?)

 

Gennaro : A proposito ’e lavoro, ma ’o sinneco nuosto nunn aveva prummiso ca facev‘aumentà ’e poste ’e fatica? (A proposito di lavoro, ma il nostro sindaco non aveva promesso che avrebbe fatto aumentare le possibilità di lavoro?)

Vicienzo : Chill‘è semp‘ ’o stesso. Cu sti cchiacchiere è gghiut‘annanze. L‘unica c‘ ha fatte crescere ’e post‘ ’e lavoro è stata ’a Jervolino ca ha fatto mpurtà 300.000 clandestine e accussí ... ha fatto aumentà 1.800 posti ’int‘ â polizia.(Il sindaco non si smentisce mai: fa solo chiacchiere, però con queste fa carriera. L’unica che ha fatto aumentare i posti di lavoro è stata la Jervolino che, autorizzando la legalizzazione di 300.000 clandestini, ... ha «creato» altri 1.800 posti nella polizia per farli controllare!)

Gennaro : Ué, Vicie’, hê visto c‘a Milano hanno fatto tutte chillu burdello «sulamente» pe na decina ’e muorte pe bbia d‘ ’e clandestine. Ma mo nuje, a Nnapule, c‘aessema dicere ca sti fatte ’e bberimme tutt‘ ’e juorne ’a tant‘anne? (Hai visto quante dimostrazioni hanno fatto a Milano «solo» per una decina di morti per colpa dei clandestini? E allora noi a Napoli cosa dovremmo dire dato che queste cose succedono da anni tutti i giorni?)

Vicienzo : Ma tu che bbuo’? ’O Sud è n‘ata cosa: nuje simme na colonia d‘ ’o Nord e ô guvierno taliano sti ccose nun nce nteressano. Anzi, cchiú stamme ’int‘ ’a zuzzimme e cchiú stamme c‘ ’a capa sotto.(Ma cosa vuoi, al Sud è un’altra cosa. Noi dobbiamo restare una colonia del Nord ed è per questo che al governo «italiano» interessa solo quello che succede al Nord. Anzi piú siamo in emergenza e piú è facile tenerci sotto controllo in modo che non abbiamo nemmeno la forza di reagire)

Gennaro : Ah, mo aggie capite pecché pe nnuje nun fanno maje niente! Però nun capisco, pure nuje ’e ttenimme ’e deputate ca stanno a Roma. Lloro aessera fà caccosa, o no? (Ah, adesso capisco perché i nostri problemi non vengono mai risolti. Però, non capisco, non abbiamo anche noi dei deputati a Roma?)

Vicienzo : Gennarí, ma sî ffesso? mo propeto t‘aggie ditto d‘ ’o sinneco nuosto! Chille nunn è napulitano? E ha maje fatto caccosa pe nnuje? (Gennarino, ma allora non capisci? Proprio adesso abbiamo parlato del nostro sindaco: quando mai ha fatto qualcosa di concreto per Napoli?)

Gennaro : Gesú, ma si manco ê politici napulitane nce putimmo cunzegnà, comme putimme campà? (Mio Dio, ma se non possiamo fidarci neanche dei nostri politici, come potremo andare avanti?)

Vicienzo : Sí, sí, ma mo te dico pure n‘ata cosa. ’O fisco saje c‘ha fatto? Cu ’e nnôve aliquote p‘ ’e tasse chille c‘abbuscava fino a 15 miliune a ll’anno, int‘ ’o ’97 pavava ’o 10% ’e irpéf, mo a chist‘anne n‘adda pavà ’o 19%. Chille ca guadambiava 150 - 300 miliune all’anno, int‘ ’o ’97 pavava ’o 51%, mo nvece n‘ha da pavà ’o 46%. Chesto che significa: ch‘ ’e poveri pavano cchiú ttasse d‘ ’e ricche. (Si è vero, ma adesso ti dico pure un’altra cosa. Sai cosa ha escogitato il Fisco? Ora con le nuove aliquote irpef ha stabilito che chi guadagna fino a 15 milioni all’anno, invece di pagare il 10% com’era nel ‘97, con il nuovo anno ne dovrà pagare il 19%. Invece chi guadagna da 150 a 300 milioni all’anno, mentre nel ‘97 pagava il 51% di aliquota irpef, col nuovo anno ne pagherà solo il 46%. Questo significa che i poveri pagheranno in proporzione piú tasse dei ricchi.)

Gennaro : Gesú, ma facenne bbuon‘ ’e cunte, va a ferní c‘ ’o Sud vene a ppavà cchiú ttasse d‘ ’o Nord. A cosa cchiú bbona ca putesseme fà, fosse chelle ca tuttu quante ’e nuje nun gghiesseme a vvutà pe nnisciuno! ’O ssaje che burdello succeresse a Roma? (Gesú, ma facendo bene i conti va a finire che il reddito totale prodotto al Sud, che è piú basso, pagherà piú tasse di quello totale del Nord. La cosa migliore che potremmo fare sarebbe quella di non andare piú a votare, neanche un solo voto. Sai che terremoto ci sarebbe a Roma?)

Vicienzo : Ma ’o bbuò capí ca chille se ne fotteno ’e nuje! Tanto ’e politici nuoste ’e tteneno fatte.(Non servirebbe comunque a niente, di noi non gliene frega niente. Tanto i nostri politici sono solo dei burattini nelle loro mani)

a.p.

____________________________________________________________________

 

L'Euronave senza rotta

«E la nave va». Il titolo del film di F. Fellini ben si addice al battesimo della moneta europea nelle borse mondiali.

Un viaggio iniziato all’insegna dell’ottimismo, con la benedizione dei governi forti dell’Europa che conta e con il placet dei governi miopi delle nazioni di secondo rango, tra cui, Italia, Portogallo, Grecia, Spagna e Austria.

L‘Euro molla gli ormeggi per iniziare una navigazione incerta, su una rotta senza una direzione precisa, senza una meta sicura. Su queste basi la scommessa dei governi deboli dell’Europa di serie B fa leva, per autolegittimarsi in campo nazionale, strappando ed estorcendo con l’inganno consensi ad un elettorato sempre piú inebetito.

Già queste tesi hanno fatto capolino su queste pagine quando ancora regnava l’incertezza sulla riuscita del progetto «Euro», ed ora che il dado è tratto ci sembra opportuno ritornare sull’argomento per ribadire alcuni concetti.

In primo luogo occorre insistere sulla crescente, inesorabile, dispersione del passato, delle radici, delle tradizioni in quanto depositarie di cultura e buon senso, al posto delle quali si impone il germe disgregante della omologazione, del «tutto uguale» perché piú conveniente al consumo, all’economia delle masse imposta ai mercati dalle multinazionali.

Ha vinto, dunque, la cultura apolide ed anonima della decantata Mitteleuropa a cavallo dei secoli XIX e XX. Quella cultura che riduce a semplici reperti museali le nostre civiltà, pianificando, uniformando velocemente le abitudini, gli usi e costumi ad un unico modello.

In un discorso tenuto all’Accademia delle Scienze di Russia A. Solzhenitsyn disse: «il comfort generale ha ottuso l’anima», volendo sottolineare, con questo, l’annichilimento progressivo delle culture da parte delle «anime» drogate dal consumismo imperante.

Diretta conseguenza di questo fatto è il considerare le poche tradizioni locali che ancora sopravvivono alla stregua di reperti folcloristici, snaturandone il significato che esse hanno nei confronti della salvaguardia delle culture in nome della diversità e delle culture.

All’interno delle tradizioni si ritrovano spesso molte intuizioni delle avanguardie intellettuali che, in quanto tali esplicano i loro frutti in tempi diversi in cui furono pensate, quasi a trattarsi di «assegni culturali post-datati». In tal senso G. Pontiggia rilevava alcuni anni fa sulle pagine del Sole-24 Ore come, in questo scorcio di fine millennio, vi sia una diffusa e significativa perdita «del senso della continuità, la fine di una idea millenaria di tradizione», specificando di non alludere «ai casi piú banali, anche se piú frequenti, quando si rinuncia alla tradizione perché la si ignora». Infatti ignorare la tradizione e le conoscenze ad essa connesse significa non avere una esatta percezione del presente, venendo per questo a mancare il confronto con le esperienze passate.

Un esempio pratico lo offre lo stesso Pontiggia proponendo un caso di equiparazione tra un cantante del momento e Bach: «Il problema non è se il cantante sia buono - può anche essere straordinario - il problema è se si sia mai ascoltato Bach». Uno dei princípi della tradizione è il rispetto necessario delle gerarchie se è vero che la natura, anche quella che produce la cultura umana, non fa salti.

Un altro punto che mi sta a cuore è l’equivoco che vuole la tecnica in antitesi con la tradizione. Tutt’altro.

Ciò che è contrario alla tradizione è il tecnicismo ossia la tecnica fine a se stessa, nociva perciò alla civiltà che ne è succuba.

Direttamente collegata a questo problema è la perdita di senso e di contatto con la realtà della politica, svuotata dei suoi precipui significati, proprio dall’azione autonoma della economia incontrollata. Il potere della Economia unitamente al progredire del consumismo contribuisce a delineare quella struttura che il Faye ha definito «il sistema per uccidere i popoli».

È questo sistema ad aver impoverito il pensiero e ad aver ridotto la religione a ricettacolo di norme morali. Per arginare il sistema l’unica arma rimasta è la coscienza storica residua, il senso di appartenenza alle proprie radici che ancora sopravvive, perché «l’uomo legato alla sue radici non è un buon cliente: non mangia, non canta e non ascolta qualsiasi cosa».

Intanto, in attesa di cogliere i frutti del potere sovversivo di un ritorno alla tradizione, «la nave va» e chi sa dove ci porterà?

frak

____________________________________________________________________

 

L'ecologia ipocrita: la Riserva Marina di Maratea

Continua incessante la benemerita operazione pseudo-ambientalista da parte del governo rosso-verde con la quale si vuole salvare non la natura, ma specialmente il bel gruzzolo di voti furbescamente estorti alla ingenua popolazione del nostro Sud.

Un problema, quello della raccolta dei consensi, che ultimamente non spaventa piú i caporioni dei partiti, dal momento che il potere si raggiunge comunque, infischiandosene della volontà popolare, con qualche ribaltone ben congegnato e attuato.

Detto questo, è dei primi giorni del nuovo anno la notizia di un disegno di legge ( n° 3057) che vede la istituzione di una riserva marina lungo parte dei trenta chilometri di costa del comune di Maratea, in Basilicata. Non occorre evidenziare che tale progetto, essendo in fase molto avanzata, non ha tenuto minimamente conto della volontà, delle opinioni della gente di Maratea. Semplicemente, chi decide nei luoghi imperscrutabili della politica, lo fa strafottendosene di chi è chiamato a rappresentare.

Del resto i sette miliardi previsti a stanziamento sono un boccone da non lasciarsi sfuggire, soprattutto se può servire da esca, specchio per le allodole di un nuovo clientelismo votoscambistico.

Comunque, lasciando da parte le opportunità politiche di tale decisione, non ci convince il fatto che con la riserva marina si possano incrementare l’occupazione e l’economia locale, nonché garantire una migliore salvaguardia dell’ambiente. Piuttosto il carattere restrittivo, tipico delle zone protette, finirebbe col mettere in crisi la già esigua attività economica derivante dal turismo.

Ma cosa possono capire i politicanti cosí distanti dalla gente, dalle cose, dal mondo che li circonda? Cosa li fa agire se non hanno come obiettivo il bene della loro comunità, dei loro concittadini? Può essere possibile salvare l’ambiente, la natura, non inserendo in questa operazione l’uomo e le sue attività?

Noi crediamo che la salvaguardia e il rispetto per la natura debbano inevitabilmente passare attraverso l'educazione e la cultura dei popoli, tanto da divenire un atteggiamento acquisito e non imposto. Il mare, la costa e l’entroterra marateoto sono giunti a noi pressoché intatti non per merito di decreti di divieto, di restrizioni imposte alla popolazione o di antidiluviane associazioni ecologiste. Li possiamo ammirare solo perché gli uomini di Maratea, da sempre, hanno interagito con le loro attività rispettando «naturalmente» ciò che li circondava, filtrando e attutendo l’impatto destabilizzante del turismo di massa.

L’ambiente, sia chiaro, deve essere in primo luogo la comunità che con esso ed in esso vive ed ha vissuto, apportando magari delle correzioni ai comportamenti, adeguandoli alle mutate condizioni imposte dal progresso. Quindi, ben vengano tutte le opere che favoriscono l’inserimento non traumatico delle tecnologie al servizio del turismo, della pesca (settore in via d’estinzione a Maratea, ma a chi importa?) ed in genere alla cittadinanza, a patto che con esse non si perda mai di vista l’obiettivo finale: il benessere e la salute della gente.

Costa di Maratea - Foto C.Colacino © 1998

 

Maratea-Basilicata
Perciò a nulla serve creare «santuari della natura» quando non si lavora per rieducare le nuove generazioni al rispetto delle tradizioni, degli antichi insegnamenti con i quali i nostri predecessori ci hanno consegnato i luoghi da difendere. A nulla serve «difendere la natura» dall’uomo come se questi fosse un elemento estraneo, negativo.

Occorre, dunque, ripensare alle attività che hanno un grosso impatto ambientale in modo nuovo, sempre nell’osservanza degli insegnamenti tradizionali e delle vocazioni della cultura locale. Invece progetti che in qualche modo stavano per prendere corpo sono ora minacciati da questa foia ecologista che tutto travolge in nome di un ipocrita modo di pensare e servirsi della natura.

Una riserva marina, cosí come si vuole realizzare a Maratea, tra mille divieti e boe di segnalazione, non solo non porterà alcun incremento di posti di lavoro, ma finirà per allontanare i turisti e per infoltire le liste di disoccupati o dei L.S.U.

Infine, con la costituzione della riserva i cittadini di Maratea cesseranno di essere parte attiva e decisionale nelle scelte dal momento che chi decide per loro decide solo e sempre per fotterli.

Non ci stupiremo un domani, a parco marino realizzato, di vedere flotte di motobarche solcare le acque protette, stracolme di «turisti per caso», mentre si accingono all’approdo selvaggio sulle spiagge vietate alle barche dei marateoti e neppure ci provocherà meraviglia sapere che in piena zona «A» il Ministro dell’Ambiente festeggia il suo compleanno sul mega yacht dell’amico industriale.

Noi ci permettiamo di rifiutare questa idea ipocrita di ecologia, poiché crediamo in una ecologia che passi attraverso una piú sentita ed efficace cultura del rispetto, in sintesi in una concreta «ecologia morale» dei cittadini e dei loro rappresentanti politici.

frak

____________________________________________________________________

 

DUE SECOLI DI LOTTA PER L'INDIPENDENZA DELLA SICILIA

Sicilia indipendente

È un grande onore per Nazione Napoletana - edizione nord - ospitare un articolo del Dott. Giuseppe Scianò, Segretario politico del Fronte Nazionale Siciliano «Sicilia Indipendente», un movimento erede di una grande tradizione di lotta al servizio della Sicilia. Ci rendiamo perfettamente conto che la Sicilia ha una peculiarità che la rende distinta dal Sud continentale. Tuttavia i legami storici e culturali tra la Nazione Napoletana e la Nazione Siciliana sono cosí profondi da rendere indubbie la necessità ed il dovere di coltivare sentimenti di grande amicizia e solidarietà tra i nostri Popoli. Le sorti della Terra Siciliana ci stanno a cuore in maniera non inferiore a quella di una qualunque regione del Sud, anche se ci rendiamo conto che l’obiettivo di restituire la Sicilia ai Siciliani sia un affare interno dell’Isola. La sincerità dei nostri sentimenti è dimostrata dal fatto che da tempo abbiamo stampato a Napoli un libretto sul separatismo siciliano, che ha riscosso un vivo interesse nell’ambiente napoletano. Antonio Pagano

____

L’incoronazione a Palermo di Carlo di Borbone, il 30 giugno 1735, è l’ultima incoronazione di un Re di Sicilia in Sicilia.

Le prerogative del Regno di Sicilia, inteso come «Stato Siciliano», sarebbero state soppresse nel 1816 dal figlio di Carlo e risorgeranno nel 1848 per un biennio circa.

Carlo regnò - da Napoli - fino al 1759, anno nel quale salí sul trono di Spagna. Gli successe, appunto, il figlio Ferdinando, che aveva appena 9 anni, sotto la tutela del ministro Bernardo Tanucci che presiedeva un «Consiglio» del quale facevano parte alcuni Siciliani.

In questo periodo in Sicilia si viveva il cosiddetto «illuminismo borbonico». Si avvicendarono due Viceré abbastanza «illuminati», Domenico Caracciolo e Francesco d’Aquino, che introdussero in Sicilia molte innovazioni sociali, economiche e culturali.

La Sicilia, però, non tollerava che il Re risiedesse a Napoli ed inoltre reclamava la propria indipendenza.

Il 20 maggio 1795 venne decapitato Francesco Paolo Di Blasi, un famoso giurista, che, con altri tre indipendentisti, pure condannati a morte (questi furono impiccati), avevano tramato per creare una Repubblica Siciliana libera e indipendente.

I martiri siciliani avevano fatto propri alcuni principi della rivoluzione francese, ma non avevano avuto alcun collegamento con questa ed avevano agito autonomamente. Si riallacciavano, infatti, al filone «nazionalista » siciliano, sempre vivo.

Appena tre anni dopo si rifugiò a Palermo, nel giorno di Natale del 1798, Ferdinando con la propria famiglia. Le truppe francesi guidate dal gen. Championnet lo avevano costretto a fuggire da Napoli, dopo aver invaso il Regno continentale. I Siciliani lo accolsero calorosamente e con grande generosità, anche perché pensarono che il Regno di Sicilia avrebbe avuto - ora - il proprio Re in «sede». I Siciliani gli finanziarono la flotta e tre reggimenti di fanteria. Gli fecero anche molte donazioni. Dopo meno di quattro anni, però, le cose cambiarono.

Gli Inglesi, con l’ammiraglio Nelson ed il Cardinale Ruffo, a furor di popolo, nel 1802, consentirono a Ferdinando di tornare sul trono di Napoli. Grande fu la delusione in Sicilia, anche perché Ferdinando non dimostrava piú alcuna gratitudine per l’ospitalità e gli appoggi ricevuti durante il soggiorno forzato a Palermo.

L’ARMATA SICILIANA CONTRO NAPOLEONE

Nel 1806, questa volta sotto l’impeto degli eserciti napoleonici, Ferdinando si rifugiò nuovamente in Sicilia, mentre a Napoli si insediavano prima Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, e subito dopo Gioacchino Murat, cognato dell’imperatore.

I Siciliani, però, verso Ferdinando furono meno ospitali e meno generosi che non nella precedente volta. Il Parlamento Siciliano rivendicò le proprie prerogative e fece pesare nei confronti dell’Impero Britannico il ruolo che la Sicilia avrebbe potuto svolgere nella guerra contro Napoleone.

Il grande Corso, che sembrava invincibile, era il pericolo maggiore e ormai dominava incontrastato in tutta l’Italia attraverso una rete di Stati-fantoccio. Il Piemonte e la Liguria erano stati addirittura incorporati alla Francia.

Lord Bentinck, ministro plenipotenziario inglese, incoraggiò le spinte nazionaliste siciliane ed incoraggiò la redazione di una costituzione che garantisse, oltre che i diritti civili - diremmo oggi - anche l’indipendenza siciliana. La nuova Costituzione, che fu emanata nel 1812, porterà nuovamente la Sicilia all’avanguardia degli Stati Europei e ridimensionerà il ruolo di Ferdinando, esautorato e relegato a Ficuzza. Bentinck incoraggiò, altresí, la formazione di una flotta da guerra siciliana e di un esercito siciliano.

Ne sarebbe stato ampiamente ripagato, perché i Siciliani dimostrarono di sapere ben combattere anche contro Napoleone. I Franco-Italiani, infatti, non riuscirono mai a compiere uno sbarco in Sicilia nonostante i ripetuti tentativi del Murat. Le navi siciliane si spinsero fino all’Alto Tirreno, insidiando il porto di Genova. Livorno e l’isola d’Elba furono occupate dai Siciliani, a dispetto di Napoleone e dei suoi sostenitori.

Dopo il successo di Vienna e la Restaurazione, che fecero tornare sui loro troni i sovrani spodestati, Ferdinando di Borbone, che è IV di Napoli e III di Sicilia, istituisce il Regno delle Due Sicilie. È l’8 dicembre 1816. La Sicilia perde cosí il suo Parlamento e la stessa Costituzione del 1812.

La lotta per l’indipendenza diventa per i Siciliani un obiettivo primario. Lo dimostra la rivoluzione scoppiata a Palermo il 15 luglio 1820, che sarà violentissima, anche se non riuscirà ad espandersi in tutta la Sicilia. Gli ultimi focolai di rivolta verranno spenti nel 1821 con l’intervento diretto delle truppe austriache.

La rivoluzione del 1820 fu osteggiata sia dai Borbone, sia dai liberali di Napoli, appunto perché, piú che «liberale», era indipendentista, anzi separatista.

COSTITUZIONE DEL 1848: «La Sicilia sarà sempre Stato Indipendente»

Altri motivi vi furono. I piú gravi dei quali avvennero nel 1837. Ma senza dubbio, una vera e propria, grande, rivoluzione, estesasi a tutta la Sicilia, fu quella, peraltro preannunziata, scoppiata a Palermo il 12 gennaio 1848. Suo leader carismatico fu Ruggero Settimo.

La rivoluzione del 1848 fu definita «federalista», perché la Sicilia dichiarava di volersi federare con altri Stati italiani.

Non fu affatto una rivoluzione «unitaria», come poi si cercò di far credere. L’indipendenza della Sicilia rimaneva, infatti, l’obiettivo prioritario. Significativo è, a tale scopo, l'art. 2 del Titolo I dello «Statuto costituzionale del Regno di Sicilia» approvato dal Parlamento, che cosí stabiliva: «LA SICILIA SARÀ SEMPRE STATO INDIPENDENTE», ed ancora: «Il Re dei Siciliani non potrà regnare o governare su verun altro paese. Ciò avvenendo, sarà decaduto ipso facto. La sola accettazione di altro principato o governo lo farà anche incorrere ipso facto nella decadenza».

1849: L’INGHILTERRA «PROGRAMMA» L’UNITÀ D’ITALIA A BREVE TERMINE

Il 15 maggio 1849, superate le ultime eroiche resistenze, le truppe borboniche riprendono possesso della Sicilia. Il sogno indipendentista sembra per il momento infranto.

Il 1848, com'è noto, era stato l’anno delle rivoluzioni in tutta quanta l’Europa. In ogni singola realtà nazionale, ovviamente, esistevano motivazioni diverse. Caratteristica pressoché comune fu l’affermazione delle teorie liberali. Ovunque si contestavano l’ordinamento «reazionario» e le «restaurazioni» scaturite dal Congresso di Vienna. In molti casi si rivendicavano la indipendenza ed il riconoscimento delle identità nazionali.

Erano, quindi, obiettivamente in crisi i princípi sui quali era basata la «Santa Alleanza», che, com’è noto, era stata stipulata nel 1815 fra Austria, Prussia e Russia al fine di garantire che l’ordine politico e territoriale, scaturito dal Congresso di Vienna non venisse piú sconvolto, né dall’interno, né dall’esterno. Aderivano all’Alleanza i rispettivi alleati nella lotta contro Napoleone.

Però l’Inghilterra, che pure era stata una delle protagoniste principali della lotta contro l’espansionismo francese, non aveva aderito alla Santa Alleanza. Si era delineata, quindi, una «differenziazione» - che sarebbe divenuta nel tempo aperta ostilità - fra la politica dell’Impero britannico e la politica degli Stati che componevano la Santa Alleanza. Morto Napoleone, l’Inghilterra individuava negli Imperi di Austria e di Russia e nella Prussia i nemici da abbattere.

Un intervento «moderatore» inglese sull’Austria avrebbe impedito, nel 1849, che il generale Radetzky invadesse il Piemonte, dopo la battaglia di Novara, avvenuta il 23 marzo 1849. Quella battaglia aveva sancito che l’esercito piemontese, guidato da Carlo Alberto e comandato dal generale polacco Chrzanowsky, era stato sonoramente sconfitto. Non solo: l’Inghilterra indusse, altresí, l’imperatore austriaco a contentarsi di un risarcimento elevato, ma pur sempre liberatorio, di 75 milioni. L’Inghilterra fece anche di peggio, perché con - non troppo velate - minacce costrinse l’Austria ad accettare l’atto di sottomissione e le dichiarazioni di buona volontà del giovane successore di Carlo Alberto, Vittorio Emanuele II, che cosí rimase sul trono sul quale si era appena seduto.

Bisognava a tal proposito ricordare che l’impero Austro-Ungarico aveva l’esigenza di concludere la guerra anche perché, contemporaneamente, al suo interno doveva far fronte a diverse rivoluzioni nazionali, «liberali» ed etnico-religiose.

LA SPORCA GUERRA DI CRIMEA

Nessuna meraviglia, dunque, se, intanto, Londra era diventata la città dove trovavano la migliore ospitalità gli «esuli» provenienti dalle varie rivoluzioni dell’intero periodo cosiddetto «risorgimentale» e dalle piú disparate realtà nazionali dell’Italia. Non era, però, una ospitalità gratuita, perché gli esuli venivano forzatamente «riciclati» in senso filo-Savoia ed «unitario» dal governo britannico. A sua volta, con la nota astuzia ed accortezza diplomatica, il Cavour assecondava i disegni inglesi contro l’imperatore russo e contro gli Asburgo. In questa ottica rientrerà la partecipazione alla guerra di Crimea. Il Piemonte, cioè, partecipa alla guerra, con l’Inghilterra e la Francia, in favore della Turchia e contro l’intervento della Russia, che vorrebbe liberare le popolazioni cristiane e, nel contempo, trovare uno sbocco «geo-politico-economico» nel Mediterraneo. La guerra di Crimea sarebbe durata quattro lunghissimi anni (1852-1856). I morti furono 400.000.

L’apporto militare del Piemonte, peraltro intervenuto negli ultimi due anni del conflitto, non fu determinante dal punto di vista militare ed i suoi numerosi morti furono vittime, in prevalenza, di vaiolo, di diarree e di malattie varie. Ma dal punto di vista politico avrebbe avuto effetti e conseguenze notevoli, perché il Regno sabaudo si qualifica come lo «strumento» attraverso il quale si sarebbe realizzato il «nobile» progetto inglese di costruire uno Stato italiano dalle Alpi alla Sicilia. Anche a costo - come vedremo - di distruggere, innanzitutto, il «maledetto» Regno delle Due Sicilie.

Quest’ultimo era, peraltro, fra gli Stati italiani, l’unico che disponesse di industrie moderne in continua espansione e di due flotte mercantili di tutto rispetto (quella siciliana e quella napoletana), di un’accademia navale, di una flotta militare e di un esercito migliore di tutti quelli esistenti negli Stati italiani in quell’epoca.

Per la guerra di Crimea, come per le altre, va anche detto che il «Piemonte» (ufficialmente Regno di Sardegna) non aveva né i mezzi, né le idee. Venne, peraltro, ben pagato per ogni soldato inviato sul fronte russo. Acquistava, tuttavia, prestigio e credibilità presso gli Inglesi, ai quali sostanzialmente, in quel caso specifico, interessava la «copertura» - presso l’opinione pubblica internazionale, ostile alla Turchia - per una impresa disastrosa e moralmente sporca. La vittoria degli Inglesi e dei suoi alleati, infatti, avrebbe consegnato, cinicamente e definitivamente, le popolazioni cristiane slave dell’Europa Sud - Orientale alla «feroce» dominazione turca, costellata di violenze inaudite, di corruzione e di abitudine allo sfruttamento. Sembrava, comunque, raggiunto lo scopo di far desistere, come si è detto, la Russia dal progetto di crearsi l’agognato sbocco nel Mediterraneo. L’Europa era, inoltre, avvisata. Gli «amici» della Russia sarebbero stati considerati e trattati come «nemici» dell’Inghilterra. Mentre i nemici della Russia - ancor quando scalcinati come il regno sabaudo - «amici» da difendere, da proteggere, da utilizzare, da premiare.

TRATTATI COMMERCIALI FRA IL REGNO DELLE DUE SICILIE E LA RUSSIA

I Borbone, intanto, intraprendono una serie di accordi e di rapporti commerciali, vantaggiosi, proprio con la Russia. Le economie siciliana e napolitana si rafforzano immediatamente e si avviano verso un ulteriore, grande, sviluppo. È troppo: l’Inghilterra rompe ogni indugio e centuplica gli sforzi per creare uno Stato unitario, che si estenda dalle Alpi al Mediterraneo e che possa sbarrare il passo, per terra e per mare, agli Imperi dell’Europa continentale ed alla loro influenza politica ed economica. Non ha remore morali, né di altro tipo. Il dado è tratto.

La potente Inghilterra prende per mano il Piemonte, lo arma, lo veste, lo calza, lo finanzia, lo programma e gli fornisce la maschera per fargli recitare la parte di un Caino, sui generis, con il compito di far fuori tutti gli Abele che avrebbe incontrato in Sicilia, in Calabria, nella Basilicata, in Puglia, in Campania, in Abruzzo e nel Molise. Per esigenze di copione, però, quel Caino sarà chiamato di volta in volta «liberatore», «patriota», «eroe», acc.

Per una serie di fatti, che mi propongo di descrivere in altra circostanza, da lí a poco sarebbe avvenuto che i tanti Abele, vittime di violenze e di espoliazioni, avrebbero chiamato e riconosciuto come liberatori, salvatori, eroi, patrioti, i tanti «Caini», che li avrebbero oppressi dal 1860 in poi.

Dirò brevemente che si sono verificati contemporaneamente - in Sicilia e in Napolitania, la sindrome di Stoccolma e quella che Franz Fanòn definisce «Alienazione culturale».

L’INGHILTERRA REALIZZA L’UNITÀ D’ITALIA

In questo contesto si svolgerà la spedizione dei mille. È un’avventura che avrà, ovviamente, una sorte molto piú felice di quella toccata alle imprese, improvvisate e senza grosso supporto straniero, di Carlo Pisacane (1844) e dei fratelli Bandiera (1857). Non può essere diversamente, del resto, per un’impresa a totale carico della Gran Bretagna. Cavour, Vittorio Emanuele, Garibaldi e compagnia bella fanno soltanto gli uomini di paglia o le mosche cocchiere, a seconda delle circostanze. Hanno la faccia tosta adeguata alla bisogna. Ricordiamo che nel 1860 l’Inghilterra, o per meglio dire, la Gran Bretagna, è la maggior potenza del mondo, lo Stato piú industrializzato, piú ricco, piú moderno, piú efficiente. È il trionfo dell’ «Era Vittoriana», dal nome della Regina Vittoria, che si avvale di governi e di primi ministri sempre all’altezza della situazione, nonostante i contrasti. La regina Vittoria ebbe il buon gusto di considerare sfacciatamente filo-italiana la politica del governo Palmerston - Russell, ma tuttavia l’accettò perché conveniente e funzionale alle mire egemoniche della Gran Bretagna.

Il fatale sbarco dei «mille» a Marsala, avvenuto l’11 maggio del 1860, viene ancora presentato, dalla cultura ufficiale, come un avvenimento radioso. Che abbia avuto un’importanza storica notevole non c’è dubbio. Ma per farla diventare un’impresa militare «pulita», i pennaioli hanno dovuto costruire un castello di bugie, alle quali - a colpi di moschetto e con violenze inaudite - i Siciliani hanno «dovuto credere» per forza.

Anche sulla effettiva «partecipazione» del Popolo Siciliano all’impresa esistono menzogne semplicemente indecenti, ancora oggi diffuse dalla cultura ufficiale.

Fondamentali per la riuscita dell’impresa furono gli abbondanti finanziamenti inglesi, la mobilitazione della flotta di S. M. Britannica con l’ammiraglio Hannibal in testa; l’uso «prepotente» delle navi mercantili statunitensi, che trasportarono altri soldati piemontesi travestiti da garibaldini; l’intervento delle truppe coloniali dell’Impero Britannico e le tante legioni straniere, delle quali faremo cenno tra poco. Ma soprattutto va ricordato l’impegno pluriennale di preparazione dei servizi segreti inglesi che avevano coinvolto massoneria, mafia, alti ufficiali borbonici, corruttibili ed imbroglioni, e traffichini ed avventurieri di ogni risma. «Elementi», tutti questi, di fondamentale importanza e tanto decisivi per la conquista della Sicilia e della Napolitania, che ancora oggi è ... vietato parlarne nelle scuole. E che la cultura ufficiale può occultare soltanto grazie al monopolio dell’informazione ed all’ultracentenario «lavaggio dei cervelli». Tutti questi elementi sono in verità necessari ed indispensabili per comprendere la crisi successiva all’annessione della Sicilia, la qualità della classe politica, pseudo dirigente, locale e tanti altri fatti.

Comprendiamo, cosí, ma non giustifichiamo, la penosa realtà siciliana, l’arretramento economico e industriale, la subordinazione all’ «Imperialismo interno» delle regioni settentrionali, l’uso della corruzione e del clientelismo come «sistema» di governo ed i tanti guai che ci continuano ad affliggere.

Non si può non parlare, in proposito, della Mafia, come strumento di «colonizzazione» dei governi e dei partiti centralisti per oltre un secolo e forse ancora di piú ...

TRUPPE COLONIALI PER «COLONIZZARE» LA SICILIA

Per ragioni di spazio, in questo mio lavoro, debbo, purtroppo, limitarmi a una veloce sintesi. L’impresa dei «mille» fu una grande sceneggiata. Allo «sbarco» di Marsala solo la comunità inglese festeggia Garibaldi. Alla battaglia di Calatafimi Garibaldi combatte, in realtà, solamente contro la pattuglia, in ricognizione, del maggior borbonico Sforza. Mentre il generale Landi, inetto e traditore, «blocca», a debita distanza, migliaia di soldati napolitani bene armati e ben addestrati. Ed ordina allo stesso Sforza di ritirarsi, consentendo ai Garibaldini di vincere una battaglia che già era per loro irrimediabilmente persa. Analoghi episodi avvengono a Palermo, a Milazzo e via via in tutta la Sicilia ed in tutto il Meridione d’Italia. La Mafia in Sicilia e la Camorra a Napoli organizzano e gestiscono il «consenso». Tutt’altro che sincero e spontaneo, laddove questo viene, in qualche modo, manifestato.

A questo punto ci pare doveroso fare cenno ad alcune importanti presenze «straniere» al servizio della spedizione dei «mille», anche questo depennate dalla storia ufficiale e dai testi scolastici.

Inglese è il colonnello Giovanni Dunn, cosí come sono inglesi i «leggendari» Peard, Forbes, Speeche (il cui nome Giuseppe Cesare Abba, non potendolo sottacere, trasforma nell’italiano «Specchi»). A questi si aggiunge il «segretario» di Lord Palmerston, Evelyn Asheley, «consigliere» e guida politica di Garibaldi.

Numerosi gli ufficiali ungheresi: Türr, Eber, Erbhardt, Tukory, Teloky, Magyarody, Figgelmesy, Czudafy, Frigyesy e Winklen. La Legione Ungherese diviene preziosa per l’occupazione della Sicilia e per tante battaglie nei territori napolitani. È utile ricordare che la Legione Ungherese sarà utilizzata per altri sei anni per la lotta contro la resistenza napolitana, denominata «brigantaggio» dalla cultura ufficiale italiana. Si macchierà di orribili carneficine contro la popolazione napolitana.

La «forza» dei «volontari» polacchi aveva due ufficiali superiori di spicco: Milbitz e Laugé. Fra i Turchi spicca Kadir Bey. Fra i Bavaresi ed i Tedeschi di varia provenienza si deve ricordare Wolff, al quale viene affidato il comando dei disertori tedeschi e svizzeri, già al servizio dei Borbone ... È veramente triste fare questo elenco, che potrebbe continuare. Ci limitiamo a ricordare che vi fu pure l’apporto di battaglioni di algerini (Zwavi) e di Indiani. Sí: Indiani dell’India, messi a disposizione di Garibaldi dal Governo di Sua Maestà britannica. Vergogna!

Il 4 agosto 1860 le leggi del regno sabaudo (cioè del «Piemonte») vengono estese anche alla Sicilia, con conseguenze piú disastrose di quelle dell’occupazione militare.

LA RIVOLUZIONE DEL 1866 E QUELLE SUCCESSIVE

D’altra parte Garibaldi a Salemi il 14 maggio del 1860 - pochi giorni dopo lo sbarco - aveva assunto la dittatura in nome di «Vittorio Emanuele re d’Italia». L’immagine di un Garibaldi, democratico e repubblicano, rispettoso delle prerogative autonomiste dei Siciliani, sarebbe stata costruita, per altre esigenze, in epoca successiva.

Inutile, a questo punto, parlare del «plebiscito», che peraltro si svolse «dopo» o di altro. Significativa è, invece, la «rivoluzione» scoppiata a Palermo il 15 settembre 1866, che durò sette giorni e mezzo. La città venne bombardata dal mare e occorsero ben 40.000 soldati per domarne la resistenza. Migliaia i morti ... dimenticati, cosí come le feroci rappresaglie e le fucilazioni.

Sommosse e disordini avvennero prima e dopo quella rivolta in tutta la Sicilia e saranno agevolate dalla grande crisi economica che seguí all’annessione, ma soprattutto dal desiderio di libertà e di indipendenza del Popolo Siciliano.

L’emigrazione, sconosciuta prima del 1860, divenne un vero e proprio esodo di dimensioni bibliche.

Prima della «conquista» del Sud, in realtà, erano soltanto i settentrionali, molto piú poveri dei Siciliani e dei Napolitani, a prendere la triste strada dell’emigrazione. Nelle Due Sicilie, infatti, esistevano industrie, agricoltura fiorente, un’immensa flotta mercantile e tante occasioni di lavoro. Ma di questo aspetto ne parleremo in modo specifico in altra occasione.

L’ESERCITO VOLONTARIO PER L’INDIPENDENZA DELLA SICILIA E LA PROMULGAZIONE DELLO STATUTO SPECIALE

Il desiderio di libertà e di autogoverno dei Siciliani sopravvisse anche all’oppressione, e vi si ribellò. I Fasci di lavoratori Siciliani, sorti come movimento sindacale e socialista, finiranno con il colorarsi di Sicilianismo e di Autonomismo, come dimostra il «memorandum» consegnato a Commissario Regio Giovanni Codronchi nel 1896.

Durante la prima guerra mondiale, la Sicilia fu la Regione «italiana» con il maggior numero di morti, nonostante fosse la piú lontana dal fronte.

Con il Fascismo il divario tra la Sicilia ed il Nord Italia - soprattutto nel periodo dell’autarchia - aumentò a dismisura; perché qui si era obbligati a comprare i prodotti delle industrie del Nord Italia ad alti costi, mentre si dovevano cedere a basso prezzo il grano e gli altri prodotti agricoli tipici.

Per la verità queste misure discriminatorie in Sicilia erano iniziate fin dal 1860 con le tariffe doganali; ma durante il ventennio fascista si aggravarono.

Comizio

Palermo: Piazza Politeama
Comizio di Concetto Gallo e di Attilio Castrogiovanni (di spalle)
Foto Martino

Nel 1942 Mussolini ordinò che i funzionari e i dipendenti statali siciliani fossero trasferiti in Continente e che fossero sostituiti da italiani provenienti da altre regioni. Temeva, infatti, il risorgente indipendentismo siciliano, mai spento, che segretamente si riorganizzava. La seconda guerra mondiale sarebbe costata ai Siciliani bombardamenti e distruzioni, le cui testimonianze sono ancora visibili.

Poco prima dello sbarco degli Alleati (1943), nacque e si estese in Sicilia il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia. I principali esponenti furono: Andrea Finocchiaro Aprile, Antonio Varvaro e Attilio Castrogiovanni. Aderirono uomini di cultura, imprenditori, studenti, contadini, lavoratori, reduci di guerra e cittadini di ogni estrazione. Fu un fenomeno improvviso e travolgente. Anche se lungamente sognato ed in parte preparato nei decenni precedenti in clandestinità.

La Sicilia, stanca delle sofferenze, delle umiliazioni e delle scelte politiche - economiche a favore del Nord Italia, rivuole l’indipendenza. Il Popolo Siciliano vorrebbe, anzi, ottenere un «plebiscito» sulla propria indipendenza, ma gli Alleati lo «riconsegnano» al Governo Italiano. Ci saranno manifestazioni di piazza, morti e feriti. Invano.

Fu costituito anche l’EVIS (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia). Primo comandante fu Antonio Canepa, che usò lo pseudonimo di «Mario Turri». Pseudonimo con il quale aveva firmato l’opuscolo «La Sicilia ai Siciliani» e il giornale clandestino «Sicilia Indipendente». «Canepa-Turri» fu ucciso il 17 gennaio 1945 a Randazzo. Con lui morirono Carmelo Rosano e Giuseppe Lo Giudice. Secondo Comandante dell’EVIS fu Concetto Gallo (pseudonimo «Secondo Turri»). Gallo fu preso prigioniero, dopo la battaglia svoltasi a San Mauro di Caltagirone, il 30 dicembre 1945. Con Concetto Gallo l’EVIS era diventato veramente operativo. ed aveva promosso molti conflitti ed azioni di guerriglia.

Sommosse con vittime ci furono a Catania, a Palermo, a Montelepre, a Comiso e in tanti altri centri piccoli e grandi della Sicilia. Fu una grande lotta popolare, i cui echi nel 1945 arrivarono a San Francisco, alla Conferenza costitutiva dell’ONU, ed ai ministri degli esteri riuniti a Londra.

sfilata
Il 15 maggio 1946, con il noto decreto legislativo, Umberto II re d’Italia, promulgò lo Statuto Speciale di Autonomia della Regione Siciliana.

Era una via di mezzo fra la richiesta di indipendenza e la restaurazione dello Stato centralizzato. Nel 1948 sarebbe diventato parte integrante della Costituzione italiana.

AUTONOMIA TRADITA

L’Autonomia serví per ingannare il Popolo Siciliano e per vanificarne le aspettative. Lo Statuto Siciliano, infatti, non è stato mai applicato integralmente dal 1946 fino ad oggi. Ha subíto, anzi, «violenze» inaudite quali la soppressione di fatto dell’Alta Corte ed una serie di «mutilazioni».

La Regione Siciliana, anziché essere uno strumento di democrazia e di autogoverno al servizio del Popolo Siciliano, è stata trasformata in una struttura elefantiaca, clientelare, al servizio dei partiti italiani e dei loro complici, che hanno continuato ad asservire gli interessi siciliani a quelli del Nord Italia. Tutto ciò, nonostante la presenza di potenzialità che sarebbero preziose per la Sicilia. I Governi regionali sono spesso la «fotocopia» dei governi centrali, come dimostrano anche le cronache piú recenti.

Il Sicilianismo, però, non è stato sconfitto. È sempre presente sulla scena politica. E ciò che oggi avviene nel mondo, alle soglie del terzo millennio, nel rimettere in discussione tutto, ne conferma la validità e l’attualità.

Si aprono, infatti, piú vasti orizzonti. Molti miti, imposti con la forza, si sgretolano. Le nazioni «abrogate» dagli Stati ottocenteschi vengono accolte a pieno titolo all’ONU.

Anche per la Sicilia si riaccende la speranza, ma nessuno potrà regalarle l’autogoverno. Saranno quanti amano veramente la Sicilia che dovranno lavorare seriamente, onestamente, pacificamente e democraticamente, ma con fermezza, per far sí che il Popolo Siciliano esca dal letargo e riconquisti il diritto di intraprendere il cammino per un avvenire di progresso, di libertà e di indipendenza. Una speranza, dicevamo, ed un augurio che estendiamo alle altre nazionalità abrogate e, prima fra tutte, alla Nazione Napoletana. Con la quale la Sicilia ha condiviso il dolore e la vergogna di dover patire, dopo il 1860, violenze, genocidi, rapine, sfruttamento, corruzione, deculturazione, subordinazione agli interessi del Nord-Italia ...

Dobbiamo capire che a sostegno dell’imperialismo italiano interno del Nord sul Sud giocano un ruolo determinante le attività e gli affari della mafia in Sicilia e della ‘ndrangheta, della corona unita, della camorra, ecc. nelle altre realtà meridionali. Non sono fatti casuali. Cosí come non è casuale l’ascarismo dei rappresentanti politici siciliani e napolitani.

Voglio dire, tuttavia, che le «presenze» incompatibili ed inquietanti, alle quali ho fatto riferimento, non devono scoraggiarci nella lotta intrapresa per la rinascita, per la libertà e per il recupero delle nostre vere identità nazionali o per il recupero della memoria storica o per rivendicare il diritto dell’avvenire. Debbono, anzi, motivare maggiormente il nostro impegno politico e culturale. Che è un impegno anche contro queste «presenze». Un impegno prioritario in tutti i sensi.

IL RUOLO DEL F.N.S. «SICILIA INDIPENDENTE»

Sono molte oggi in Sicilia le sigle di partiti o di movimenti o di gruppi che si richiamano, nelle rispettive denominazioni, al Sicilianismo. Fra queste non mancano sigle di comodo nelle quali la sicilianità è richiamata per indicare la presenza localistica di un «gruppo», magari in attesa di contrattare l’ingresso o il ritorno nell’ambito del partito unitario piú generoso.

Non intendo fare, però, di tutte le erbe un fascio. Non escludo che esistono movimenti e persone in buona fede e realmente sicilianisti.

Mi limito a dire che il Fronte Nazionale Siciliano «Sicilia Indipendente» è il movimento indipendentista che, con coraggio, con onestà e con programmi politici ben definiti, dal 1964 conduce una lotta coerente e democratica al servizio esclusivamente della Sicilia, della quale vuole il progresso, il benessere, la rinascita economica, morale e politica. E ne vuole il reinserimento nei congressi internazionali, dai quali la Sicilia è stata esclusa per la sua attuale condizione coloniale.

Il F.N.S. si vanta, altresí, di condurre da vari decenni una lotta intransigente contro la mafia, che considera «strumento» di colonialismo, oltre che male in sé, pernicioso per la civiltà e per l’Umanità.

Nel 1996 è sorta l’Alleanza per la Sicilia Democratica che vuole coordinare le tre anime del Sicilianismo (autonomista, indipendentista e federalista). Vi hanno aderito, senza perdere le rispettive identità, il Fronte Nazionale Siciliano «Sicilia Indipendente», Sicilia Democratica in Europa e diverse associazioni culturali a carattere fortemente e «sinceramente» sicilianista.

Il Fronte Nazionale Siciliano ha un peso morale e politico molto maggiore di quella che è la consistenza numerica dei voti conseguiti nelle varie competizioni elettorali. Presenza numerica che, tuttavia, negli ultimi anni si è fatta piú consistente.

Il Fronte Nazionale Siciliano può, altresí, vantare la presenza di un suo valido rappresentante nel Consiglio Comunale di Santa Venerina in provincia di Catania. Si tratta del Prof. Salvo Musumeci, recentemente eletto. Musumeci è altresí il Presidente del «Gruppo Jonico-Etneo» del F.N.S. e svolge un’intensa attività, sia politica che culturale, di alto livello e fortemente trainante. Ci sia consentito di mandare a lui un affettuoso augurio di buon lavoro, anche a nome di tutti i lettori.

EMIGRATI SICILIANI OVVERO LA NAZIONE SICILIANA ALL’ESTERO

Non sarebbe completa questa «sintesi» se non facessi un fortissimo riferimento agli Emigrati Siciliani, ovunque essi siano. Il F.N.S. li considera la punta avanzata del Sicilianismo, perché sono proprio loro che - consapevolmente o no - hanno custodito e tramandato i valori, la cultura, la lingua della Nazione Siciliana. Piú di quanto non sia avvenuto nella stessa Sicilia.

Non deve apparire fuori luogo se colgo, anzi, l’occasione per dire che il F.N.S. li vuole partecipi della lotta per la rinascita della Sicilia, in prima persona, senza intermediari, perché - come ho detto - sono essi stessi la Nazione Siciliana e ne costituiscono, anzi, la parte maggiore rispetto a quella che è rimasta e vive ed opera in Sicilia. Essi e i loro discendenti.

Ai fratelli Siciliani all’estero ritengo doveroso ricordare che il F.N.S. «Sicilia Indipendente» non ha mai voluto, né vuole da loro, soldi o aiuti economici. Non perché sia ricco. Ma perché gli EMIGRATI SICILIANI non devono delegare ad altri a compiere una lotta politica che è la loro lotta.

E dico questo anche per evitare che eventuali loschi traffichini strumentalizzino l’amore per la Sicilia e la nostalgia o la nobiltà d’animo degli Emigrati Siciliani, al solo scopo di «scroccare» soldi o altro.

È fuori luogo dovere fare queste puntualizzazioni? Speriamo di sí. Ma crediamo che sia utile farle, anche per il buon nome del F.N.S. e della Sicilia.

Megghiu diri «chi sacciu?», ca «chi sapía?»!

(Meglio dire «cosa so?» anziché «che sapevo?»)

EMIGRAZIONE, ESODO E DEPORTAZIONE DEI SICILIANI DOPO L’ANNESSIONE DELLA SICILIA ALL’ITALIA

Fatte queste premesse, mi sia consentito di dire che il Fronte Nazionale Siciliano «Sicilia Indipendente» non sarebbe il partito del Popolo Siciliano, della Nazione Siciliana, che è, se non avesse tenuto e non tenesse presenti, in ogni attimo della propria azione politica ed in ogni programma ed in ogni pensiero, gli Emigrati di ieri e di oggi., i loro sentimenti, le sofferenze e la capacità di reagire e di affermarsi, la cultura ed i valori, che quasi sempre si sono tramandati e si continuano a tramandare, da diverse generazioni e per le future generazioni.

Certamente il nostro desiderio ed il nostro sogno rimane quello che tutti possano tornare. Ma, diciamolo francamente: è impossibile. Soprattutto per le generazioni che si sono ramificate in altri continenti o, per non andare lontani, in alcune regioni europee ed italiane in particolare. Si pensi alla «Padania», nel cui territorio negli anni Cinquanta e negli anni sessanta si è verificata una vera e propria «deportazione» di lavoratori siciliani, spesso con le loro famiglie. Ai quali in Sicilia era stato negato il diritto al lavoro ed alla produttività per rafforzare l’industrializzazione del Nord-Italia ed il suo imperialismo interno sul Sud e sulla Sicilia. A tal proposito l’economista Giuseppe Frisella Vella diceva che in Italia l’interesse nazionale coincideva soltanto con gli interessi delle regioni settentrionali. Aveva ragione ed i fatti continuano a confermarlo.

Dicevamo: il «ritorno» fisico in Sicilia per tutti è impossibile. Ma portare la Sicilianità dove sono gli Emigrati o, piú esattamente, riconoscere, apprezzare, rivalutare il patrimonio di Sicilianità che c’è nel cuore e nella mente di ogni Siciliano all’estero, è possibile e doveroso. Ed è utile non solo al recupero della identità siciliana, ma soprattutto alla rinascita della stessa Nazione Siciliana.

Abbiamo esempi commoventi di come - non solo in Padania o in Europa, ma anche in Australia, in America (Nord, Centro e Sud), in Africa e in Asia - i nostri Emigrati per generazioni abbiano mantenuto legami con la Sicilia, anche quando avessero perduto nel tempo i rapporti personali con i parenti e gli amici lasciati al momento della «spartenza».

Sia in Sicilia che all’estero, però, i governi ed i partiti italiani hanno messo in moto una capillare opera di «desicilianizzazione» e di «deculturazione» per recidere ogni rapporto e per cancellare l’identità siciliana.

È un’opera che tuttora viene eseguita, anche con maggior vigore e con ogni mezzo, persino con finanziamenti apparentemente destinati ad iniziative sociali o pseudo-culturali. È un momento difficilissimo, nel quale si può perdere di colpo un immenso patrimonio morale, costruito in piú di un secolo.

Occorre, quindi, resistere ed organizzarsi adeguatamente.

FRATELLI SICILIANI EMIGRATI, VI MANDO UN MESSAGGIO

Mi sia consentito, tuttavia, un incoraggiante paragone. Per i Siciliani oggi si ripetono le condizioni per le quali, circa cento anni fa, fra gli Ebrei sparsi in tutto il mondo, non si credeva piú alla possibilità di fare rivivere lo Stato d’Israele o per gli stessi Ebrei di tornare nella terra dei loro antenati, dopo duemila anni dalla diaspora. Soltanto una minoranza lo sperava e si batteva perché ciò avvenisse. Ebbe ragione.

Fratelli Emigrati Siciliani, non mi posso dilungare di piú in questo articolo su un argomento, che tratteremo - mi auguro assieme - in altra occasione.

Perdonatemi, quindi, se sintetizzo il tutto in un paragone del quale Voi certamente coglierete il messaggio essenziale.

Le analogie, infatti, fra la Nazione Ebraica e quella Siciliana sono molte. Ebbene, dalle tante similitudini che possiamo ricordare fra l’uno e l’altro popolo, traiamone un insegnamento. Ogni singolo Siciliano, infatti, può fare per la Sicilia, quello che ogni singolo Ebreo ha fatto e fa per Israele.

Può, cioè, impegnarsi a lavorare per la rinascita ed il riscatto per la Sicilia pur essendo lontano migliaia di chilometri dalla Patria e «pellegrino» in diverse località del Mondo, vicino o lontano ad altri conterranei. Questo impegno farà battere all’unisono il cuore di tutti i Siciliani, rianimerà il grande e generoso cuore della Nazione Siciliana.

Conseguiremmo, cosí, un ritorno ideale di tutti i figli, lontani dalla Sicilia, in Sicilia. Sarebbe altresí un «viaggio» della Sicilia per vivere accanto ai propri figli lontani. I legami, quindi, anche fisici, ed anche attraverso scambi culturali, politici, economici, turistici, vanno rinsaldati cosí fortemente da lasciarne fuori i partiti italiani ed i loro tentativi di annientare i sentimenti di Sicilianità ed i valori. Che, invece, noi vogliamo e dobbiamo rinsaldare e rinnovare.

Ma dobbiamo osare di piú. Dobbiamo fare in modo che i Siciliani all’estero, le loro famiglie, i loro discendenti, si riconoscano come «Comunità Siciliana», si presentino, si aiutino, siano solidali. E facciano convivere la cultura e le tradizioni della Nazione Siciliana con quelle degli altri Stati, nei quali vivono ed operano come cittadini leali e onesti.

LA SICILIA VOLI CA S’ARRICOGGHIUNU LI FIGGHI SO’ LUNTANI ...

Il Fronte Nazionale Siciliano «Sicilia Indipendente» auspica comunque che, se non tutti, almeno il maggior numero possibile dei Siciliani all’estero, a qualunque «generazione» di Emigrati appartengano, possano ritornare - pure fisicamente - in Sicilia per reinserirsi piú direttamente nella lotta e per apportare nuove idee ed esperienze.

«Chi voli la Sicilia?» si domandava il poeta Di Salvo in una poesia natalizia e rispondeva: «Voli ca s’arricogghiunu li figghi so’ luntani. Chiddi ca sunnu all’estiru, trattati comu cani» ed anche tutti gli altri. Aggiungiamo noi con affetto e con determinazione. Le cui intensità può comprendere pienamente soltanto chi è stato o è emigrato e chi ha la Sicilia nella mente e nel cuore sempre, in ogni attimo di ogni suo giorno. Per tutta la vita. In ogni luogo e in ogni circostanza.

Fratelli Siciliani, questo «ritorno», questa «rimpatriata» almeno idealmente, deve e può avvenire. Il piú presto possibile, nel miglior modo possibile.

L’ALLEANZA PER LA SICILIA

Non sarebbe completa questa «cronaca» se non tornassi, seppur brevemente, a parlare della costituzione dell’ Alleanza per la Sicilia Democratica» della quale il Fronte Nazionale Siciliano è una componente «costitutiva».

«Sicilia Democratica» è un recente soggetto politico, essendo sorte nel 1996. Vuole essere un’aggregazione non soltanto finalizzata ad una migliore strategia elettorale, capace di contrastare le mega-organizzazioni dei partiti dominanti, capace di coordinare e valorizzare le tre anime nobili del Sicilianismo, che sono quella «indipendentista», quella «federalista» e quella «autonomista». Per quest’ultima, poiché il termine «autonomista» è inflazionato, dobbiamo precisare che intendiamo esclusivamente quell’autonomismo che si riconosce nelle ragioni della «specialità» dello Stato Siciliano e nella riaffermazione della identità nazionale del Popolo Siciliano.

Presidente dell’Alleanza è Francesco Mannino. Segretario Politico, io stesso.

Non mancheremo di parlare - in altra occasione - dei programmi e delle finalità di «Sicilia Democratica».

Come è ovvio, la responsabilità di una grande, coinvolgente, qualificata lotta «indipendentista» rimane comunque al Fronte Nazionale Siciliano «Sicilia Indipendente». Non a caso gli osservatori piú attenti definiscono, noi militanti, «sicilianisti di progresso», ma soprattutto «indipendentisti». Cosa, questa, che ci onora e ci responsabilizza.

CON IL F.N.S. «SICILIA INDIPENDENTE» NEL TERZO MILLENNIO

Parlare del Fronte Nazionale Siciliano significa parlare contemporaneamente dell’Indipendentismo Siciliano odierno e delle prospettive che questo ha per il futuro immediato e per il futuro piú lontano - e, senza dubbio, molto affascinante - del prossimo millennio.

Quella di rivendicare il diritto all’avvenire, di guardare al futuro ed al progresso è una connotazione specifica dell’indipendentismo Siciliano, del vero autentico indipendentismo Siciliano, in ogni tempo. Anche nel nostro.

«Noi non volevamo diventare piú piccoli ed isolati. Noi volevamo (e i nostri Statuti parlavano chiaro) conseguire una individuazione come Popolo, ma nel contempo confederarci con la stessa Italia e con altre Nazioni similari e specialmente con quelle gravitanti sul Mediterraneo, mare nel quale noi fiorimmo e del quale siamo il centro» - scrive nel 1976 Attilio Castrogiovanni, protagonista di primo piano della rivoluzione separatista del dopoguerra, ad un compagno di lotta che a sua volta era stato il leader dell’ala militarista, Guglielmo Paternò di Carcaci, che in quel momento avrebbe voluto scrivere un libro di memorie sul Movimento Indipendentista Siciliano.

«I nostri avversari», continua Castrogiovanni, «non capirono, perché non vollero capirci, ma neanche udirci. Non seppero, perché non vollero saperlo, che noi lanciammo la idea della Federazione Europea e Mediterranea, quando ancora essa non era ancora nata nei cervelli dei vari Schumann, De Gasperi, Churchill, Spaak ed altri».

Queste parole, del tutto occasionali, ci sembrano le piú adatte per dare l’idea di come anche l’Indipendentismo deldopoguerra guardasse avanti, non fosse conservatore o reazionario, ma fosse, invece, capace di proposte che riportassero la Sicilia nel Mediterraneo e nel Mondo e verso i tempi moderni, a quel tempo impensabili.

Intendiamoci: già Mario Turri, il primo Comandante dell’EVIS, nell’edizione del 1944 del volumetto «LA SICILIA AI SICILIANI», guarda al futuro ed ai contenuti sociali che la scelta indipendentista deve avere: «La Sicilia di domani - egli scrive a conclusione delle proprie riflessioni - sarà quale noi la vogliamo: pacifica, laboriosa, ricca, felice, senza tiranni e senza sfruttatori».

Non voglio farmi prendere la mano da citazioni che dimostrino la connessione fra indipendentismo siciliano e la visione progressista anticipatrice di idee e di progetti, che è una delle maggiori caratteristiche della lotta indipendentista di ogni epoca. Mi perderei in una mare di testimonianze, una piú interessante dell’altra.

Un’ultima citazione è, tuttavia, doverosa e si riferisce ad Andrea Finocchiaro Aprile, che fu il leader contro il quale si sarebbero scatenati il livore, le menzogne, le calunnie dei nemici dell’Indipendentismo: «La Sicilia deve tornare ad occupare nel Mediterraneo e nel Mondo il posto che la Sua Storia, la posizione geografica e la operosità del Suo Popolo Le hanno assegnato».

LA LOTTA CONTINUA

Il Fronte Nazionale Siciliano «Sicilia Indipendente», che dell’Indipendentismo Siciliano e dell’ansia di progresso e di libertà del Popolo Siciliano, attraverso il suo lavoro, si è conquistato il ruolo di rappresentante, è anche erede, continuatore ed innovatore di quegli ideali, molto validi ed attuali. Ideali che dovranno essere posti a disposizione della Società del terzo millennio e delle sue esigenze.

DALLA «TAPPA» NAZIONALE ALL’INTERNAZIONALISMO

Ed è per questo che il Fronte Nazionale Siciliano, ad esempio, si confronta con i temi della globalizzazione dei mercati e dell’economia, del dilagare del consumismo, del lavaggio dei cervelli che i «Grandi Fratelli» possono compiere, della Mafia, del suo trasformismo, della internazionalizzazione della criminalità, della lotta contro la povertà, della qualità della vita, dell’ecologia, della «gestione» del Mediterraneo, del diritto alla salute, della pace e della non violenza, della solidarietà internazionale ... e di tutte le problematiche che l’evoluzione dei tempi e dell’Umanità comporta. Ma che non possono essere neppure lontanamente compresi, in Sicilia, se il Popolo Siciliano non avrà consapevolezza di se stesso, della propria identità, della propria posizione geografica, della propria condizione coloniale.

Non per egoismo della sopravvivenza, ma per crescere meglio e per dare il proprio contributo alla costruzione di un mondo migliore.

Le problematiche di oggi ed ancora di piú quelle di un futuro - che è già iniziato - rendono, infatti, piú attuale, piú urgente, piú necessaria di quanto non lo sia stato nel passato, in Sicilia come altrove, la lotta per l’affrancamento del colonialismo e per l’indipendenza delle nazionalità, abrogate nel secolo scorso con la forza e con l’inganno. Cosa questa che è avvenuto soprattutto per la Sicilia e per quella macronazionalità che oggi viene denominata «Mezzogiorno» d’Italia (probabilmente per non farne ricordare la discendenza diretta dalla «Magna Grecia»). Non diversa è la situazione della Sardegna, nella quale la parte politica piú vivace è quella che si richiama al Nazionalismo Sardo.

Ed ecco perché il F.N.S. «Sicilia Indipendente» ha sempre posto alla base della propria ideologia anche un pensiero specifico di Franz Fanon, secondo il quale non si potrà mai fare «internazionalismo» se si salta la tappa nazionale.

In questa prospettiva si muovono le rivendicazioni politiche del F.N.S. «Sicilia Indipendente» che altri cercano di plagiare o di imitare per annacquarne il significato e per scollegarle dal progetto di riscatto e di rinascita del Popolo Siciliano. In questa prospettiva, quindi, il F.N.S. rivendica la proprietà del petrolio al Popolo Siciliano; la revisione degli accordi italiani o europei che penalizzano la Sicilia e la sua agricoltura; la costituzione di tutto l’arcipelago siciliano, di tutto cioè l’attuale territorio della Regione Siciliana, in Zona Franca integrale; la realizzazione di una industrializzazione e di una economia autopropulsiva; il recupero della memoria storica e la difesa della lingua e della cultura siciliana e, cosí, tante altre «restituzioni» e nuove pretese, che sarebbe troppo lungo elencare. Ma delle quali fanno parte il nostro «NO» alla costruzione del Ponte sullo Stretto, la lotta contro la Mafia della quale ho già parlato, i nostri concetti di «centralità» mediterranea e di Sicilia «produttiva».

SICILIANI E CITTADINI DEL MONDO

Per concludere: crediamo nella solidarietà e nella fratellanza fra i Popoli. Non odiamo nessuno, neppure i nostri nemici, i nostri sfruttatori o i traditori. Ripudiamo la violenza. Vogliamo, però, giustizia e libertà. Condanniamo senza riserve l’imperialismo interno delle Regioni Settentrionali, come immorale, antistorico, incivile, razzistico e disonesto. Indegno di sopravvivere al 20° secolo.

Lavoriamo, quindi, affinché la Sicilia - liberatasi dai ceppi del servaggio e della emarginazione - possa tornare in Europa, nel Mediterraneo e nel Mondo. Ed auspichiamo che questo «ritorno» le consenta anche di riabbracciare tutti gli altri Popoli del Mondo (e primi tra tutti i nostri fratelli della Nazione Napoletana), dai quali ci ha «separato» la violenza e la politica dei Governi e dei partiti italiani, succedutisi nell’esercizio del potere dal 1860 in poi. Popoli e Mondo dai quali ci allontana - lo ripetiamo - fino ad oggi la condizione coloniale in cui versa il Popolo Siciliano.

Vogliamo ovviamente che, nell’ottica internazionalista, la Sicilia torni ad essere se stessa, torni ad essere per ogni Siciliano «La Matri nostra immurtali».

Cosí come vogliamo che ogni Siciliano, a sua volta, senza rinunziare alla propria identità nazionale, ma anzi rivalutandola, diventi cittadino del Mondo. In una società pacifica e plurietnica, alla quale vorremmo che appartenesse tutta la Umanità del prossimo Millennio.

Giuseppe Scianò

Segretario del Fronte

Nazionale Siciliano

«Sicilia Indipendente»

90141 PALERMO

Via Brunetto Latini, 26

tel. 091.329456

 

Scianò

____________________________________________________________________

 

Aquila pagina precedente