DUE SICILIE
Edizione Internet di Nazione Napoletana Nord

Periodico indipendente dei Popoli delle Due Sicilie: NAPOLITANI e SICILIANI

Anno III ] Numero 16 ] NOVEMBRE 1998 ] 138º dall'occupazione ] 1 tornese

SOMMARIO

 

Quando Bossi attacca i partiti romani e i meridionali, accusandoli di impedire ai settentrionali di conquistare la loro autonomia, dice una grande sciocchezza. La Lega non riesce a conquistare l'indipendenza della Padania per un'unica ragione, perché IL NORD NON LA VUOLE: non il Nord dei bar o dell'industrialotto di provincia che non contano niente, ma il Nord che conta sul serio, la classe intellettuale e i vertici della Confindustria.

Se la Lega avesse dalla sua parte solo un dito di quel Nord che conta, potrebbe non solo rendere la Padania indipendente, ma potrebbe sulla carta costituire il quarto Reich, considerando la forza del suo apparato industriale e lo strapotere totale che i giornali del Nord hanno a Roma e in tutta l'Italia.

È del tutto evidente che se la grande industria del Nord avesse reale interesse alla separazione da Roma vi riuscirebbe facilmente anche senza la Lega. Perché allora i grandi industriali del Nord sono i veri, grandi pretoriani dell'unitarismo? Perché non se ne fregano niente dell'identità del Nord: a loro interessa solo di continuare a controllare il mercato peninsulare ed a sfruttare le compiacenze dello Stato.

Bossi ha minacciato di armare i suoi, di militarizzare la guardia padana. Perché non lo fa? Ha centinaia di migliaia di giovani entusiasti che lo seguono. Non lo fa perché sa perfettamente che se solo ci provasse il potere prenderebbe a calci nel sedere lui e tutte le camicie verdi.


Attenzione: non è Roma che lo tratterebbe in questo modo, ma è IL NORD CHE CONTA che darebbe disposizioni a far questo. Perché Roma in realtà non esiste, è un fantasma agitato da Bossi per mantenere alta la tensione dei suoi.

La mentalità dei romani è formata dalla grande stampa del Nord, i romani, signori onorevoli compresi, campano con gli stipendi prodotti dalla "ricchezza nazionale", cioè dall'industria padana, i governi nazionali, di Berlusconi e di Prodi, sono, o diventano, la proiezione immediata degli interessi della Confindustria.

Non è dunque il Nord ad essere schiavo di Roma, sono Roma e tutta l'Italia ad essere schiave del Nord.

Dunque esistono due Nord, il vecchio Nord che pensa solo a fare soldi e a sfruttare uno Stato alle sue dipendenze e i leghisti che, non avendo alcuna adesione significativa presso la grande industria e l'intellettualità, vedono ridursi i loro margini di manovra.

Se questa situazione non cambierà la Lega rischia di finire in una specie di riserva indiana senza possibilità di fuoruscita, perché il nord unitarista dirige, tramite la manovalanza meridionale, l'esercito, la polizia, le strutture dello Stato, i partiti, i sindacati, la magistratura, tutto. Perciò Bossi, ad esempio, se ne è uscito con la proposta curiosa dei giudici da eleggersi con suffragio popolare, ma cosí facendo non fa altro che allargare ulteriormente la distanza tra la Lega e l'intellettualità del nord.

Bossi si consola col fatto che ha il popolo dalla sua parte. Ma un progetto politico, anche se ha un forte sostegno popolare, non potrà mai affermarsi se non è raccolto dalle classi dirigenti.

Dopo il 1860 anche il popolo meridionale era contro lo Stato unitarista, non solo, ma manifestò questa avversione persino con la lotta armata. Ebbene quel popolo ha completamente perso, perché? perché le classi alte del Sud erano dalla parte del potere ed avevano il controllo totale della stampa, dell'esercito, della polizia e della magistratura. La situazione attuale del Nord, rispetto alle aspirazioni dei Leghisti, non è molto diversa.

La Lega dovrebbe assolutamente darsi un profilo culturale, anche a costo di perdere voti, ma per far questo dovrebbe attaccare apertamente e duramente il risorgimento. Non credo che lo farà, perché una battaglia antirisorgimentalista, per quanto necessaria, non ha al Nord un significativo retroterra storico e culturale.

A questo punto l'antirisorgimentalismo sudista potrebbe forse divenire l'unica speranza della Lega per realizzare le sue aspirazioni politiche.

Sicuramente in prospettiva è un potente alleato. L'orgoglio civile sudista e l'orgoglio civile nordista hanno un limite comune: non possono realizzarsi nei riguardi del potere centrale senza il concorso dell'altra parte.

Questa considerazione forse mortifica la vuota presunzione dell'uno o di entrambi, ma nello stesso tempo li rende realisti, e in prospettiva, vincenti.

Edoardo Spagnuolo

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DETERMINAZIONE ESTREMA

L'Edizione Nord di Nazione Napoletana è senza dubbio un giornale diverso rispetto a quelli che vengono stampati nell'area "sudista". La sua diversità non consiste nei contenuti dei suoi articoli, piú o meno assimilabili a quelli degli altri fogli sudisti, ma nel fatto che perché piú degli altri si trova ad agire in primissima linea.

Il giornale di Pagano è stampato al Nord: dunque è rivolto prevalentemente ai Meridionali emigrati. Questa caratteristica, che rende unica l'Edizione Nord di Nazione Napoletana, espone il giornale al giudizio di Meridionali che vivono in una dimensione molto diversa rispetto a quella dei connazionali residenti in Patria.

Lo sappiamo: il male oscuro, misterioso dei Meridionali, che ha le sue malefiche radici nel diciottesimo secolo, è il disamore verso la propria terra. Tuttavia questa disaffezione ha la possibilità di uscire pienamente allo scoperto, di mostrare il suo volto piú incivile proprio presso i Meridionali emigrati, che vivono anche geograficamente il loro distacco affettivo verso la loro Patria.

Quest'estate è venuto a trovarmi un medico meridionale, che lavora da decenni in Toscana. Questo signore appartiene a quella categoria di Meridionali fieramente legati alle tradizioni della propria terra. Eppure mi ha confessato che, nonostante il suo profondo amore per il Sud, diffida molto dei tantissimi Meridionali che, come lui, lavorano in Toscana. Questa sua diffidenza nasce dal fatto che troppe volte è rimasto intimamente offeso dalle affermazioni indegnamente antisudiste dei suoi connazionali trapiantati al nord.

Ora il giornale di Pagano è inevitabilmente proiettato proprio verso questi Meridionali invertebrati. Ebbene io credo che ad un foglio come l'Edizione Nord di Nazione Napoletana spetti il compito fondamentale di curvarsi pazientemente sul tumore maligno che divora la coscienza civile di troppi emigrati. Il sentimento istintivo che siamo portati a manifestare verso i nostri connazionali rinnegati è il disprezzo: tuttavia non penso che dobbiamo muoverci come se dovessimo costituire un movimento di "puri" e "duri". Ritengo che, specie l'Edizione Nord, pur proponendo una linea di grande fermezza e fierezza, deve proiettarsi generosamente verso gli emigrati malati che sono tantissimi.

Non dimentichiamo mai che i Meridionali sradicati sono pur sempre nostri connazionali: se il loro orgoglio civile è completamente sepolto da montagne di distorsioni intellettuali è pur vero che la molla del riscatto civile può sempre scattare. Dobbiamo profondamente convincerci che i nostri giornali, anche se a volte modesti nella forma e nei contenuti, svolgono sul piano dell'azione civile un ruolo di capitale importanza. Non lasciamoci sgomentare dall'ostilità e soprattutto dalla completa indifferenza degli altri Meridionali, ma riprendiamo coraggio, volgendoci indietro e considerando il bene enorme che sul piano civile, nonostante tutto, a prezzo di tanti sacrifici, abbiamo avuto la possibilità di realizzare.

Da questo punto di vista Antonio Pagano, sia pure esprimendo opinioni forse non sempre condivisibili, è una vera bandiera per la nostra area: la sua testarda ostinazione nell'andare avanti, nel produrre con notevole frequenza nuovi numeri del suo giornale, è un esempio per tutti di come solo ed esclusivamente la determinazione estrema potrà farci sperare di scetare il nostro popolo, da troppo tempo addormuto.

Mi auguro che i suoi lettori comprendano questo aspetto fondamentale e siano sempre piú generosi nell'aiutarlo, in tutti i modi possibili.


Edoardo Spagnuolo

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LA NOSTRA STRADA

Sempre con piú frequenza giunge il rammarico di qualche lettore circa la poca o nulla "incisività" del giornale su temi che direttamente riguardano l'attualità politica e sociale. Naturalmente queste osservazioni vengono riferite in privato, togliendo cosí ad esse tutta la loro potenziale carica critica e costruttiva. Si dice a parole al Direttore, ai suoi collaboratori, si chiacchiera con l'amico o il conoscente, mai però si impugna la penna per scriverne direttamente, approfittando dell'ospitalità di Nazione Napoletana.

Ora, lasciando da parte ogni polemica, se pur doverosa, veniamo ad esaminare i motivi per cui il giornale non placherebbe la sete politico-sociale dei suoi lettori. Si dice che il giornale non sia foriero di proposte, si dice che esso abbia come scopo la sola critica (e già questo non dovrebbe parere negativo se si prestasse attenzione all'indirizzo delle critiche). Posto che tali critiche siano rispondenti alla realtà dei fatti, bisogna considerare in primo luogo che il giornale, grazie alla fatica del suo Direttore, esce con regolarità "solo" bimestrale e che, per questo motivo, non può rispondere tempestivamente a questioni che svolgono la loro esistenza in un arco temporale molto breve. Viceversa, in casi di problemi di piú ampia e decisiva portata, il giornale ha dimostrato di accettare, con modestia ed umiltà, la sfida che queste emergenze lanciavano alla società cosiddetta "civile".

È chiaro che la gente, il popolo, desideri non solo conoscere i fatti, la realtà, con tutti i retroscena che la compongono, ma voglia essenzialmente risolvere i suoi problemi in modo veloce e definitivo, domandando soccorso a chi a tale scopo è demandato. In questo senso i lettori di Nazione Napoletana non possono protestare al giornale la loro insoddisfazione circa la mancanza di offerta di soluzioni che in esso si riscontra. Non possono per un motivo evidente: Nazione Napoletana non è un giornale che accetti questo sistema politico, sociale e culturale. Nazione Napoletana immodestamente si pone fuori dal contesto unitario per il solo fatto che da questo stesso contesto è esclusa, perché colonizzata, la parte del Paese che essa vorrebbe rappresentare. Non a caso quindi si adopera il condizionale. Nazione Napoletana vorrebbe rappresentare il Sud, o almeno la parte del Sud che si riconosce come parte integrante ed integrata della "Questione Meridionale". Ma, senza alcun paradosso, questa parte del Sud, la gran parte di esso, non vuole essere rappresentata, non vuole mollare l'osso da spolpare che ancora lo Stato italiano le offre. In una condizione di popolo di seconda categoria quale è ritenuto e si compiace di farsi ritenere il Sud, in una realtà di assoluto subordine alle necessità della "locomotiva" del sistema Italia che è il Nord, quali proposte si possono attendere i lettori di un giornale fuori dal "coro"? Noi, per non peccare di presunzione e per tenersi fuori da ogni collusione con un potere che non ci rappresenta, preferiamo creare le premesse di una nuova società civile del Sud che si fondi sull'autonomia politica quando risulti impraticabile la via dell'indipendenza,

Per questo motivo la critica è non solo un atteggiamento di costume, ma è addirittura necessaria se si pensa che chi è deputato a parlare di noi, delle nostre cose, della nostra cultura, ad occuparsi delle nostre vicende, non conosce nulla, assolutamente nulla, di noi, della "nostra" storia. Vogliamo un esempio di come il qualunquismo dei politici si abbatte inesorabile sulle scottanti questioni del Sud? Il cantautore genovese Fabrizio De André in un concerto a Roccella Jonica nel mese di agosto, tra un pezzo e l'altro della sua esibizione, si è lasciato andare a delle considerazioni che qui vi riassumiamo: "se nelle regioni meridionali non ci fossero la 'ndrangheta, la mafia e la camorra, probabilmente la disoccupazione sarebbe molto piú alta".

Chi conosce veramente la realtà del Sud, non solo in quanto uomo di cultura, ma perché uomo politico, piú avvezzo quindi a capire il perché delle cose, non dovrebbe innanzi a tali parole essere assalito dal tarantolume ipocrita travestito da perbenismo e controbattere con le trite dichiarazioni di circostanza quali: "chi ha una coscienza (sic) democratica non può che respingere l'equazione 'ndrangheta uguale lavoro" oppure "lo sviluppo e l'occupazione devono andare avanti di pari passo con la legalità e la democrazia".

Ecco, dunque, una proposta per i nostri lettori, un suggerimento, sperando di non sorprenderli in compagnia di benpensanti che, riprendendo De André, credono di avere assolto al loro dovere. Abbandonare il luogo comune del linguaggio politico, soprattutto del politico meridionale, che è quello piú pericoloso in quanto pienamente asservito agli interessi altrui, non farsi piú sodomizzare da chi promette il mondo perché in realtà non può dare neppure un briciolo della sua attenzione, ecco il nostro messaggio: la proposta è dunque di fare da soli perché dietro le risposte dei politici, offesi da un cantautore da strada, si nasconde proprio il mondo sommerso degli usurai, dei mafiosi, degli uomini di malaffare che li sostengono.

Se la proposta viene considerata troppo generica, e per questo poco attuabile, dovrebbe bastare il sapere che per il Sud non si devono ricercare formule magiche o chissà quale pozione miracolosa: l'imperativo fondamentalmente morale ed operativo è che per il Sud si cominci a fare sul serio, anziché usare i palliativi dei lavori socialmente utili. Il petrolio, il turismo, la bonifica del territorio, l'agricoltura, sono tutti aspetti non toccati, dove lo sviluppo è solo espressione potenziale che non è compito di un giornale come il nostro cogliere. I giornali dovrebbero indicare, in quanto espressioni non di potere, ma di avanguardia culturale e civile, possibili tendenze, tenere vivo il dibattito sulle emergenze, essere in sintesi la sentinella della società civile anziché i cantori salariati del potere.

In questo ambito il lavoro di Nazione Napoletana è aggravato dal fatto che la società civile che vorrebbe rappresentare è di fatto da ricostituire, poiché, come si è già piú volte detto su queste pagine, solo il riconoscersi in una società univoca per usi, costumi, tradizioni, può avviare un processo di autonomia culturale, politica ed economica. È questa, a mio parere, la sola strada che porta all'originalità, alla presenza significante nel mondo, a quell'autodeterminazione che rifiuta il codificato, il precostituito, l'omologante.

Tutto quanto pensato al di fuori di quest'autonomia è mera opera palliativa e il malato è inesorabilmente destinato a morire.


F. C.

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I LAZZARI E LA DIFESA DELLA NAPOLETANITÀ

Lazzari, scugnizzi, muschilli. Nomi diversi in epoche diverse per indicare però lo stesso anelito di libertà, lo stesso amore viscerale per la propria città, Napoli, lo stesso sprezzo del pericolo. La vita a rischio, quotidianamente, per gioco. È il vivere pericolosamente di chi ha niente da perdere, che spesso porta a morire da grande. Come nel 1799, quando a mani nude fronteggiano le baionette dei battaglioni del francese invasore. E i Lazzari muoiono a migliaia. Oppure, come nel 1943, a far ingoiare al tedesco la sua tracotanza. Bottiglie incendiarie contro l'acciaio dei carri armati Tigre.

Eroismo nudo, senza l'intingolo velenoso della retorica, perché essi non hanno divisa, e per loro non ci sono luccicanti medaglie. Qualcuno ha scritto che per merito loro Napoli "resta una città in perenne credito con la Storia". Ma è un credito che si ostinano a non pagare, a cominciare dagli storici di professione.

Eppure per i benpensanti non meritano di essere ricordati. Colpa della loro regola di vita eccessiva (pane, cielo, amore ... e fantasia), sempre al di sopra e al di fuori delle righe dei canoni della normalità. Non classificabili con gli usuali schemi mentali.

Prendiamo i Lazzari, per esempio. Anarchici per il loro modo di vivere libertario e comunitario. Ma di un'anarchia eretica se è vero, come è vero, che essi sono fedelissimi difensori del Trono e dell'Altare, e non solo a parole. Quando tutti diserteranno, loro saranno ancora lí, a morire testardamente "p' 'o Rre". Corpi scomodi, da rimuovere subito, financo dal ricordo.

Storicamente i Lazzari nascono con Masaniello, piú precisamente con gli "alarbi", i suoi giovani e combattivi seguaci, seminudi e laceri, che hanno per insegna una bandiera nera. Alla vista di questi ribelli straccioni, l'altera nobiltà spagnola parla offensivamente di "lazaros", cioè di laceri, miserabili. Con fervida fantasia, quei giovani descamisados antelitteram ribaltano l'offesa e della parola ne fanno una bandiera da innalzare. Lazzari perché discendenti dal Lazzaro del Vangelo. È la nascita di un'aristocrazia al rovescio.

La Lazzaria è, dunque, qualcosa di profondamente diverso dalle corti dei miracoli esistenti nelle altre capitali europee. I Lazzari non sono mendicanti, né ladri; anche se occasionalmente possono trasformarsi negli uni e negli altri. Né tantomeno sono affiliati alla camorra, che al tempo degli spagnoli comincia a mettere radici; anche se ogni Lazzaro del mercato conosce il "santo", cioè la parola d'ordine che ogni giorno dà la camorra quale lasciapassare; essa è soltanto un ossequio di quest'ultima alla Lazzaria, di cui teme la forza. Siamo di fronte ad un vero e proprio contropotere. Tanto che ogni Lazzaro ripete orgogliosamente che Napoli ha soltanto tre padroni: prima viene S. Gennaro, poi il Re e, infine, lui.

Dunque i Lazzari padroni della città, ma padroni giocosi. Proverbiale infatti la loro giocosità, quasi la vita fosse un'eterna festa. Non a caso lazzo, che sta per scherzo, deve a loro l'etimologia.

La vera forza dei Lazzari sta nell'essere al di fuori di tutte le esigenze sociali. Egli vive del nulla, e di questo nulla fa appunto la sua forza. Per tetto ha soltanto il cielo stellato di Napoli; il clima quasi sempre mite fa sí che egli possa fare a meno di gran parte delle vesti. Il bassissimo prezzo della frutta, che la vicina feracissima campagna fornisce in quantità, l'abbondanza del pescato gli permettono di sfamarsi senza tanti problemi. E se qualche problema resta, è risolto dall'arte dell'arrangio e dalla fantasia sempre vivissima. L'essere al di fuori di ogni esigenza sociale lo rende obiettivamente un uomo libero.

Il Lazzaro è consapevole di questo e si gode lo spettacolo della vita, pronto ad impadronirsi dei giorni di festa della città, cosí come dei suoi giorni di guerra. Ammira i soldati con le loro sgargianti divise, quando vengono passati in rivista dal Re. Il teatro dei pupi lo vede spettatore ed attore, piange e ride con il suo eroe preferito. È spesso al porto a guardare l'arrivo e la partenza delle navi, facendo viaggi meravigliosi con la sua fantasia. È veramente l'uomo del paradosso, tanto da far scrivere al Dumas " ... gli altri popoli si riposano quando sono stanchi di lavorare; lui, invece, quando è stanco di riposare lavora ... ".

La loro anarchia è apparente perché all'interno riconoscono una vera e propria gerarchia, i cui capi sono riconosciuti ufficialmente dalla Corte borbonica. Porta Capuana diventa il quartier generale dei capi-lazzari, mentre Piazza Mercato, cuore da sempre della vecchia Napoli, la base generale di tutti i Lazzari. Cosí che quando Ferdinando di Borbone lascia la città per una visita diplomatica alle altri corti europee, sono i "gran marescialli" della Lazzaria a garantire al Re l'ordine nella capitale del Regno delle Due Sicilie, con gran rabbia della camorra e grave scorno della polizia. E la promessa viene mantenuta.

La coscienza di essere una forza temibile all'interno del popolo napoletano, quasi gruppo etnico a se stante, fa si che alla fine del Settecento, durante l'effimera Repubblica Partenopea, finiscono col diventare, per libera scelta, oggettivamente un'elite controrivoluzionaria, che offre il proprio braccio alla difesa del Re. Una forza non di poco conto se si considera che il loro numero ascende a circa 50.000, 60.000 uomini decisi a tutto, circa il 10% dell'intera popolazione della Napoli del tempo.

Odiati dall'intellighenzia cittadina filogiacobina per questa loro devozione fanatica al trono dei Borbone, i Lazzari sono malvisti anche dalla Chiesa, che li preferirebbe mendicanti.

I rapporti con la borghesia sono poi da sempre conflittuali, essendo solitamente i beni di quest'ultima a risentirne durante le ricorrenti sollevazioni dei Lazzari contro il malgoverno spagnolo. I quali, spavaldamente, si concedono perfino il lusso di avvertire la popolazione e quindi la guarnigione spagnola che di lí a poco ci sarà sommossa. È il famoso grido "serra serra", letteralmente "chiudi chiudi".

Esso è un grido di guerra, di allarme e di riunione, quando i Lazzari, in procinto di rivoltarsi, danno loro stessi ai commercianti la voce affinché serrino le botteghe, soprattutto quelle alimentari. La voce, prima sommessa, si sparge veloce nell'intricato dedalo di vicoli, poi diventa grido, infine saccheggio. Quel grido raggela i ceti abbienti. È l'avvertimento dell'imminente finimondo che sta per succedere.

Numerose, ma mai rispettate, nel corso dei decenni le prammatiche sanzioni dei Viceré per vietare il grido.

Quando, nell'anno 1799, i Francesi invasori sono alle porte, in Napoli prendono chiare posizioni, fronteggiandosi, soltanto i filogiacobini e i Lazzari. La borghesia come sempre, per i soliti interessi di bottega, pur non schierandosi apertamente propende per il piú forte in quel momento, cioè i Francesi. Per questo motivo i Lazzari, con la loro filosofia spicciola, ne traggono le debite conclusioni che:

chi tene pane e vino / add'êsse giacubino

Beceri, straccioni, barbari, ignoranti, sanguinari. È stato fin troppo facile, per l'intellighenzia nostrana, marchiare con queste parole di fuoco i combattenti della Lazzaria. Salvo poi a celebrare come martiri quei capi-lazzaro, come Michele Marino inteso "'o Pazzo", che passano successivamente dalla parte della Repubblica. Dimenticando che il passaggio di campo è dovuto, per il Marino, anche ad una borsa di ben duecento ducati. Un vero e proprio tradimento prezzolato, che comunque Michele 'o pazzo, pagherà alla fine con la morte, mediante impiccagione per mano degli stessi Lazzari, il 29 agosto 1799.

Lazzari monarchici tutti sgherri assassini, Lazzari repubblicani tutti martiri. Cosí son sempre andate le cose in questo nostro paese. Eppure in quel momento la scelta di campo dei Lazzari monarchici coincide inequivocabilmente con la difesa della dignità e della libertà della Nazione Napolitana, in barba a tutti i sofismi intellettualoidi.

Al grido di "viva 'o Rre nuosto e morte i Giacobbe" i Lazzari affronteranno, quasi disarmati, i battaglioni francesi, pagando un prezzo altissimo di lagrime e sangue in difesa della Napoletanità, che in fondo ancora ci appartiene grazie anche a loro.

Orazio Ferrara

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LA FORTEZZA DI FENESTRELLE
Hitler non inventò nulla che non fosse stato fatto prima dai Savoia

Quando il comitato di redazione di Nazione Napoletana - Edizione Nord - decise di fare questo inserto, le indicazioni per RIN, l'autore di questo pezzo, furono quelle di fare una ricerca sulla Fortezza delle Fenestrelle, dove vennero rinchiusi i prigionieri Napolitani nel 1860. In realtà ne è venuto fuori qualcosa di diverso e, piú che delle Fenestrelle, l'inserto parla delle terribili sofferenze che sono state inferte ai nostri soldati dall'aggressore piemontese.

A questo punto avrei dovuto cambiare il titolo, poiché solo verso la fine, e solo con una breve descrizione, si parla delle Fenestrelle, che fu, come leggerete, la "soluzione finale" per tanti nostri sventurati soldati. Ho voluto, tuttavia, lasciare intatto questo titolo perché Fenestrelle è al di là della sua storia. Fenestrelle identifica, infatti, i Savoia e i Piemontesi. La fortezza è cioè una "costruzione simbolo di popolo": come lo è il Colosseo per i Romani, il Maschio Angioino per i Napolitani, la statua della libertà per gli Americani, cosí come i tanti monumenti in ogni città del mondo. Fenestrelle è un simbolo vergognoso, e identifica in modo esemplare quali sono stati i valori dei Savoia e dei Piemontesi, ma la costruzione è citata in un depliant turistico dalla Regione Piemonte come luogo da visitare, perché incarna lo "spirito europeo" (sic).


Noi della redazione conosciamo benissimo le capacità dell'autore: paziente e instancabile ricercatore, puntiglioso nel trovare le prove delle vicende e, seppure appassionato patriota, equilibrato nei giudizi. Proprio per questo le notizie che sono venute fuori hanno suscitato in tutti noi un vero e proprio sgomento, indignazione e una profonda rabbia. Certo, dopo 138 anni da quegli avvenimenti, può far sembrare incredibile provare ancora questi sentimenti, ma vi accorgerete, leggendo, che queste sono le sensazioni che, frase dopo frase, montano dentro la mente di ogni lettore, anche non di parte.


Antonio Pagano

EUROPA : LA MADRE DI TUTTE LE STRAGI

Quando si accenna a sterminii di guerra, l'immaginario collettivo fa prontamente riferimento ai campi di concentramento nazisti di Auschwitz, Buchenwald, Mauthausen ed altri che la televisione e i film hanno reso tristemente familiari. Un po' meno familiari sono gli sterminii compiuti dai sovietici contro le nazionalità dell'Europa orientale e dai Giapponesi contro il popolo cinese e i popoli del sud-est asiatico.

In Europa, alla fine della II Guerra Mondiale, che causò una mattanza infinita, dopo parecchi anni di silenzio, ma soprattutto perché il padre Stalin tolse l'incomodo della sua presenza da questo mondo, a poco a poco cominciarono ad emergere, dagli archivi dei servizi segreti, i fatti agghiaccianti delle fosse di Katyn in cui i sovietici fecero macello dell'ufficialità polacca deportata dopo la spartizione della Polonia con la Germania nazista. Le foto dell'orribile massacro, migliaia di scheletri, oltre diecimila, riportati alla luce, fecero in un baleno il giro del mondo, il mostro, esaltato per parecchi lustri, cioè da quelli che non avevano degustato il paradiso sovietico, il mostro, dicevo, divino modello di protettore dei popoli contro l'imperialismo americano ed occidentale, era stato finalmente smascherato. Accortamente gli oppositori ideologici del sistema sovietico se ne servirono polemicamente per lunghi anni, ma oggi purtroppo quasi nessuno dei giovani sa di quell'infame genocidio e, forse, neppure gli anziani lo ricordano piú, tempestati come sono, in questo secolo cosí breve, da notizie sempre piú atroci.

STRAGI NELLE DUE SICILIE

Eppure il massacro di Katyn, finalizzato all'eliminazione di qualunque opposizione all'imperialismo sovietico, non era, sul piano storico, una novità nel panorama dei crimini di guerra. Senza far mente a Napoleone, che in fatto di sterminii fu un campione ineguagliato per oltre un secolo, basti al riguardo citare solo le stragi perpetrate dai suoi generali nella invasione delle Due Sicilie nel 1799 che però non piegarono il nostro popolo, come con lealtà ammise uno di essi, il Thièbault (i Napoletani ci insegnarono a temerli come uomini... Sebbene siano stati battuti dappertutto e, senza contare le perdite che subirono durante i combattimenti, piú di sessantamila di essi siano stati passati a fil di spada, sulle macerie delle loro città o sulle ceneri delle loro capanne, NON LI ABBIAMO MAI LASCIATI VINTI) [altro che tremila morti di cui parla Colletta, N.d.R.] sappiamo delle terribili stragi etniche nel nostro Sud dal 1860 in poi, tipo quelle di Scurcola Marsicana, Pizzoli, Isernia, Pontelandolfo, Casalduni, Montefalcione e tante altre, documentate sia da storici delle Due Sicilie che da memorie militari di alcuni criminali generali invasori protagonisti degli eccidii, per i quali, anche se post mortem, prima o poi dovrà essere istruito un Tribunale di Norimberga: "Le SS del1860 e degli anni successivi si chiamarono, per gli abitanti dell'ex Reame, piemontesi, afferma con sacrosanta ragione Alianello in "La Conquista del Sud" (Rusconi, 1994, pag. 261) e inoltre (a pag. 257): "Morti a cataste. torme di schiavi ai lavori forzati, schiere di esuli, senza casa e senza pane, senza onore, si vanno aggirando per le strade d'Italia, d'un'altra Italia. ostile. beffarda, dovunque accolte dal sospetto che è anche terrore e ripugnanza persino. Il destino del Sud è ormai fissato per cento anni almeno" grazie anche a tutti gli scellerati collaborazionisti, tantissimi, di casa nostra.

Antonio Ciano, nel suo libro ""I Savoia e il massacro del Sud", parla di un milione di morti "acc'si", cifra non inverosimile dal momento che il corpo di occupazione piemontese, "che disponeva ormai di tutta la forza d'Italia" (Francesco II), compresa la guardia nazionale di trista memoria, assommava nel 1865, anno del massimo sforzo contro la resistenza meridionale, a mezzo milione di uomini, cioè A TANTI QUANTI GLI AMERICANI NELLA GUERRA DEL VIETNAM. "Se si traesse il novero dei fucilati, dei morti nelle zuffe, dè carcerati dal Piemonte, per soggiogare il Regno di Napoli, senza fallo si troverebbe assai maggiore di quello dei voti del plebiscito, strappati con la punta del pugnale e colle minacce del moschetto..." riferisce La Civiltà Cattolica (Serie IV, Vol. XI, 1861, pag. 618). Come dire che i morti, nel 1861 mese di agosto, superavano già di gran lunga il milione trecentomila. Infatti i risultati del cosiddetto plebiscito, truccati ed estorti con i moschetti alla gola, risultarono essere: 1.302.064 Sí contro 10.312 No. La menzogna di tali numeri è scolpita, per chi avesse ancora qualche dubbio in proposito, nella lettera da Napoli a Ruggero Bonghi n. 3298 datata 20 marzo 1861 del Carteggio di Cavour, La Liberazione (!!!) del Mezzogiorno, vol. IV pag. 398, Zanichelli: " ... Ieri è stato il giorno piú solenne per dimostrare lo scontento di tutto il popolo. Il 14 fu la festa del Re ', non lumi, non feste, non un evviva :..il 18, proclamazione del Regno d'Italia, silenzio di morte..."

Poco o per nulla invece si è parlato dello STERMINIO DELL'ARMATA DELLE DUE SICILIE. Eppure, documenti che accennano a luoghi e cifre dei deportati "desaparesidos" nei campi di concentramento sabaudi (regolarmente dimenticati dagli "storici" prezzolati di regime) esistono e come! per esempio, la seguente lettera di Cavour a Farini, luogotenente a Napoli, datata 21 novembre 1860, n. 2551 del citato Carteggio, vol. III: "Carissimo amico. Io vi prego a nome pure dei miei colleghi a rifletterci ancora sopra prima di spedire qui tutte le truppe napoletane che il Papa e i Francesi ci restituiscono (si tratta di 12.000 soldati fatti prigionieri a Terracina, là inviati dal Re Francesco II perché tornassero nel Regno dalla parte degli Abruzzi, N.d.R.). è, a parer mio, atto impolitico sotto tutti gli aspetti. Il trattare tanta parte del popolo da prigionieri non è mezzo di conciliare al nuovo regime le popolazioni del Regno. Il pensare di trasformarli in soldati dell'esercito nazionale è impossibile e inopportuno. Pochissimi consentono ad entrare volontariamente nel nostro esercito, il costringerli a farlo sarà dannoso anziché utile almeno per ciò che riflette gran parte di essi. Ho pregato Lamarmora di visitare lui stesso i prigionieri che sono a Milano. Lo fece con quella cura che reca nell'adempimento di tutti i suoi doveri. Poscia mi scrisse dichiarandomi che il vecchio soldato napoletano era canaglia di cui era impossibile trarre partito; che corromperebbe i nostri soldati se si mettesse in mezzo a loro. Credo che bisogna fare una scelta, mandare a casa tutti quelli che hanno piú di due anni di servizio, dichiarando loro che al menomo disordine sarebbero richiamati sotto le armi e mandati a battaglioni di rigore. Tenere sotto le armi quelli che non hanno compiti due anni di servizio e quelli fonderli nei reggimenti, costringendoli a servire per amore o per forza. Vi prego di comunicare queste idee a Fanti, invitandolo a nome del Consiglio a soprassedere almeno per qualche tempo dallo spedire a Genova quegli ospiti incomodi... Vi mando la lettera di Lamarmora sui prigionieri Napoletani... ". Vediamo quale era la lettera che questo generalone aveva inviato al suo Hitler in sedicesimo il 18 novembre 1860 (non si meraviglino i lettori per tale accostamento: Hitler invase la Francia attraverso il Belgio e l'Olanda, il conte dracula il Regno attraverso lo Stato pontificio): "... Non ti devo lasciar ignorare che i prigionieri Napoletani dimostrano un pessimo spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsenton a prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di vermina, moltissimi affetti da mal d'occhi... e quel che è piú dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Jeri a taluni che con arroganza pretendevano aver il diritto di andar a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco secondo, gli rinfacciai che per il loro Re erano scappati, e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavan a servire, che erano un branco di carogne che avressimo trovato modo di metterli alla ragione. Non so per verità che cosa si potrà fare di questa canaglia, e per carità non si pensi a levare da questi Reggimenti altre Compagnie surrogandole con questa feccia. I giovani forse potremo utilizzarli, ma i vecchi, e son molti, bisogna disfarsene al piú presto".

Le condizioni igieniche erano spaventose, ma non per questo il soldato napolitano perdeva orgoglio e maestà. Da questa lettera emerge a tutto tondo il volto della vera canaglia, lui, il Lamarmora, il codardo che finché era al sicuro macellava a Gaeta il nostro esercito con i cannoni rigati francesi e i fucili inglesi, sostenuto dalle massime potenze mondiali di allora che erano venute a dichiararci una guerra altrettanto mondiale, ma che, nel 1866, a Custoza, nonostante che le sue forze fossero quattro volte superiori a quelle di Alberto d'Austria, fuggiva piú veloce di un coniglio in compagnia di tutti quegli altri scellerati come Cialdini, il boia numero uno, che si erano distinti nel crocifiggere prima i nostri fanti sul Volturno, a Gaeta, a Civitella e a Messina e poi il nostro popolo indifeso che gli si opponeva con le falci, coi forconi e con le pietre: tanti presi, tanti fucilati, questo era il motto di quegli assassini. Ma nonostante le fucilazioni a catena elargite con sadica disinvoltura dal barbaro aggressore, una fierissima resistenza antiunitaria dilagava in tutto il Sud. Resistenza che purtroppo solo sporadicamente era capeggiata da ufficiali fedeli alla Patria napolitana. La cosa fu messa in risalto dal Vice Ammiraglio Leopoldo Del Re, Incaricato del Portafoglio degli Affari Esteri del Governo Napolitano in esilio, in data 7 settembre 1861, cioè esattamente un anno dopo l'inizio della resistenza, in risposta al memorandum di Ricasoli: "... Ai numerosi soldati che si battono contro l'invasore non mancano, come invece pretende Ricasoli, capi volontari e non mancherebbero loro neanche i generali napoletani, se i proconsoli piemontesi, temendo ciò, non li avessero arrestati tutti, con pochissime eccezioni e inviati a Genova, ad Alessandria, a Fenestrelle... Questa misura ha colpito generali e ufficiali superiori nonostante gli accordi di Capua, Gaeta e Messina, e che non erano tra quelli che il Piemonte avrebbe potuto decorare con l'ordine di S. Maurizio... "

I FEDELISSIMI

Eppure, agli sforzi assassini che il bandito Cialdini compiva contro Gaeta, la Guarnigione della Cittadella rispondeva impavidamente, sotto l'uragano delle bombe, con un ri-giuramento di fedeltà alla Patria duosiciliana e al Re Francesco Il. Leggiamolo assieme.


"Sire.

In mezzo al deplorevoli avvenimenti, di cui la tristezza dè tempi ci rese spettatori dolenti e indignati, noi sottoscritti ufficiali della guarnigione di Gaeta, uniti in una ferma volontà, veniamo a rinnovare l'omaggio della nostra fedeltà dinanzi al vostro trono, reso piú venerabile e piú splendido dall'infortunio. Cingendoci la spada, noi giurammo che la bandiera affidataci da V.M. sarebbe da noi difesa anche a prezzo di tutto il nostro sangue. Ed è a questo giuramento che noi vogliamo rimanere fedeli qualunque sieno le privazioni, le sofferenze e i pericoli ai quali ci chiama la voce dè nostri capi; noi sacrificheremo con gioia le nostre fortune, la nostra vita e qualunque altro bene per il trionfo e pei bisogni della causa comune. Gelosi custodi di quell'onor militare che solo distingue il soldato dal bandito, noi vogliamo mostrare a V.M. ed all'Europa intera che, se molti dè nostri, col tradimento e colla viltà, hanno bruttato il nome dell'Armata Napoletana, fu pur grande il numero di coloro che si sforzano di trasmetterlo puro e senza macchia alla posterità. Che il nostro destino sia presto deciso, o che un lungo periodo di sofferenze e di lotte ci attenda ancora, noi affronteremo la nostra sorte con docilità e senza paura, colla calma fiera e dignitosa che si conviene ai soldati, noi andremo incontro alla gioia del trionfo o alla morte dei prodi, innalzando l'antico nostro grido di "Viva il Re".

Il generale Tito Battaglini, nel suo libro "Il crollo militare del Regno delle Due Sicilie", vol. 2, pag. 63, riferisce circa i prigionieri: a Gaeta "la forza capitolata fu di 920 ufficiali con 25 generali, avendo altri tre seguito il Re a Roma, e di 10. 600 uomini di truppa, fra i quali 800 ammalati e feriti". Durante l'assedio, sempre secondo il citato generale, "le perdite, borboniche furono di 1079 uomini... fra cui 17 ufficiali... per tifo decedettero 9 ufficiali e 307 soldati". La costruzione dell'ITALIA UNA E INDIVISIBILE marciava su un oceano di cadaveri napolitani e di distruzioni infinite: i mali di oggi sono figli di quelli di ieri. Ma era solo l'inizio. Il popolo delle Due Sicilie avrebbe conosciuto ben altri orrori, ben altre distruzioni, per mano dei "fratelli liberatori" discesi dal nord, degni emuli dei loro barbari antenati del V e VI secolo.

Ecco come lo stesso criminale di guerra Cialdini scrisse al suo degno compare il Generale Fanti il 18 febbraio 1861: "I danni alla piazza eccedono le nostre previsioni. Alcune zone ricordano Sebastopoli. Due o tre giorni di fuoco intenso, come era nella mia intenzione di fare, avrebbe letteralmente distrutto Gaeta". Ma Francesco II, che i parricidi unitaristi "o chiammavano scemo e Lasagnone" (ma annascunneva 'o core e nu lione) (F. Russo, '0 surdato 'e Gaeta, XII), aveva capito che la resistenza a Gaeta aveva i minuti contati e, quale Capo Supremo della fortezza e dell'esercito, essendosi raggiunto lo scopo politico della resistenza all'aggressione, prese la decisione suprema di trattare la resa per non far trucidare ormai inutilmente tutti i suoi soldati sotto le fraterne bombe del Camillone e compari ("Primma 'e nce fa trattà peggio d' 'e cane, / pr'mma 'e nce fa murí mm'ezo 'e turmiente, / isso dicette: No! Basta! Fernimmo! Sarraggio Rre, ma ve so' patre, appr'mmo!) (F. Russo: '0 surdato 'e Gaeta, XXIX). Ma le forze che, con fedeltà ed eroico furore, si erano battute sul Volturno, questa Waterloo delle Due Sicilie, ascendevano ad oltre quarantamila uomini. Di questi circa dodicimila non potendo trovar rifugio nella fortezza erano stati inviati in territorio pontificio con la segreta speranza che i francesi che presidiavano "amichevolmente" quello Stato non impedissero il ritorno nel Regno dalla parte degli Abruzzi per dar inizio alla resistenza. Ma i transalpini erano alleati dei piemontesi per via della cessione del Nizzardo e della Savoia avvenuta tra la fine del 1859 e il 1860, per la quale cessione i piemontesi agognavano a un compenso. Perciò i francogalli erano nemici non tanto occulti delle Due Sicilie insieme agli inglesi nemici dichiarati (... L'Inghilterra apertamente, e la Francia sottomano, ci eccitano a finirla. Non si dia pensiero della diplomazia. Rimanga a Gaeta o se ne vada il Re [Francesco II], noi dobbiamo senz'esitare andare a Napoli) (lettera n. 1097 di Cavour a Fanti il 2 ottobre 1860, in Carteggio di Cavour, vol. III, pag. 11). Ma i Francesi li fecero prigionieri e senza tanti complimenti li spedirono in regalo ai piemontesi.

DEPORTAZIONE DEI PRIGIONIERI

A Capua, da parte del Generale Enrico Morozzo Della Rocca, erano stati fatti altri 11.500 prigionieri, altri 2.600 dal Garibaldone in due tornate sul Volturno. Siamo perciò ai quarantamila di cui il generale Fanti parla al suo astuto padrone nel dispaccio n. 2545 datato Napoli 19 novembre 1860, riportato a pag. 347 del terzo volume della citata corrispondenza di Cavour: "Se V.E. non noleggia dei vapori all'estero e subito pel trasporto, è impossibile uscire da questo labirinto ... ve ne vogliono ... altri pei 40mila prigionieri di guerra". Costui ritorna sull'argomento nella successiva lettera n. 2580 del 25 novembre: " ... Mi pare che nella grande urgenza di molti trasporti sarebbe necessario noleggiarne e contrattarne in Genova od altrove pel trasporto a Genova da Civitavecchia o Terracina dei prigionieri di guerra Napolitani che rendono i Francesi...". Tali lettere affermano due cose: che i prigionieri devono essere deportati al nord e, implicitamente, che la flotta napolitana, regalata al nemico dai parricidi traditori e fusa con quella piemontese (Decret fusion marine Napolitaine et Sarde émané ...) (dispaccio di Cavour n. 2583 del 25 novembre 1860 al Vittorione), non ha equipaggi, perché i marinai hanno disertato in blocco per raggiungere il loro legittimo Re a Gaeta. A tali prigionieri bisognerà poi aggiungere i capitolati delle fortezze della Sicilia ultime a cadere: Augusta, Milazzo, Siracusa e Messina (solo in quest'ultima 152 ufficiali e 4138 fra graduati e soldati; - v. C. Cesari L'assedio di Gaeta, pag. 172). Si arriva cosí alla cifra di cinquantaseimila prigionieri citati da quel degno figlio di Caronte, il generale Cialdini, nella polemica lettera del 21 aprile 1861 diretta al Garibaldone, pubblicata sulla Gazzetta di Torino: "... Generale, voi compiste una grande e meravigliosa impresa coi vostri volontari. Avete ragione di menarne vanto, ma avete torto di esagerarne i veri risultati. Voi eravate sul Volturno in pessime condizioni quando noi arrivammo. Capua, Gaeta, Messina e Civitella, non caddero per opera vostra, e CINQUANTASEIMILA borbonici furono battuti, dispersi e fatti prigionieri da noi, non da voi ... Nel vostro legittimo orgoglio, non dimenticate, o generale. che l'armata e la flotta nostra vi ebbero qualche parte, distruggendo molto piú della metà dell'esercito napoletano, e prendendo le quattro fortezze dello stato ...

Le Armate di Terra e di Mare delle Due Sicilie ammontavano infatti a oltre centomila uomini, che bisognava calzare, equipaggiare, dotare di armi leggere, pesanti, di navi, etc ... La perdita di tali commesse, assegnate dal 1860 in poi solo ai nordisti, ha fatto precipitare nel nulla la nostra industria che da allora non conta nemmeno come il due di briscola. In qualunque Stato l'industria della armi, per quanto eticamente abominevole, rappresenta fin dall'epoca degli Ittiti il fulcro di qualunque ricerca industriale e di supremazia in tutti i campi. Nella nostra Patria, venuto a mancare tale volàno, era inevitabile che si cadesse nel sottosviluppo economico e culturale con conseguente oceanica emigrazione.

DEPORTAZIONE DEI GENERALI

Nella caduta di Gaeta erano stati fatti prigionieri 25 generali: Tenenti generali: Casella, Ritucci, Salzano, Sigrist, Milon; Marescialli: Schelembri, Afan de Rivera, Tabacchi; Brigadieri: Melendez, Marulli, Polizzy, Antonelli, Bertolini, Sanchez de Luna, Micci, D'Orgemont, Pelosi, Lovera, Muti, Albanese, Palumbo, De Dominicis, Paterna, Tedeschi e Vecchione. Già prima della resa di Gaeta si incomincia ad arrestare generali precedentemente capitolati. La notizia vien data dal generale piemontese Della Rocca in un telegramma del 2 gennaio 1861 al suo criminal superiore Cialdini: "Sono stati arrestati cinque generali borbonici" (colonnello Cesare Cesari: L'assedio di Gaeta, pag. 115). Il 18 febbraio 1861, cioè appena cinque giorni dopo la caduta di Gaeta, il generale piemontese Fanti, capo di Stato maggiore generale nonché ministro della guerra, scriveva a Cialdini: "Approvo che V.E. abbia mandato i prigionieri di Guerra nelle isole". Era l'inizio delle deportazioni: isole, Livorno, Genova, Savona, poi a piedi per i campi di concentramento piemontesi di Alessandria, S. Maurizio Canavese, S. Benigno Canavese, Lombardore, S. Benigno di Genova, Fenestrelle e anche di Milano. Ma già prima della resa di Gaeta era pure cominciato il calvario dei nostri soldati prigionieri: " ... tra le parecchie migliaia di prigionieri, tramutati nell'Italia superiore, benché tentati colla fame, col freddo in clima per essi rigidissimo, e, con ogni genere, di privazioni, appena i tre o quattro sopra cento si piegarono ad arrolarsi nelle milizie di un altro Re, e quasi tutti, all'invito, non fecero altra risposta, che questa molto laconica: Il nostro Re sta a Gaeta" (La Civiltà Cattolica, serie IV., vol. IX pag. 304, 25 gennaio 1861) e a pag. 306 "i poveri fantaccini regnicoli che nella Cittadella di Milano [l'odierno Castello Sforzesco, trasformato da fortezza militare in monumento civile verso il 1898, N.d.R.], in questi rigori di verno, vestiti alla leggera come se fossero di state a Mergellina, vivono di due once di riso" e a pag. 367: "Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad uno spediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, e rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane e acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d'altri luoghi posti nei piú aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sí caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame e di stento fra le ghiacciaie! E ciò perché fedeli al loro Giuramento militare ed al legittimo Re! Simili infamie gridano vendetta da Dio, e tosto o tardi l'otterranno". Il corrispondente ritorna, con parole ancora piú drammatiche, sull'argomento prigionieri nel vol. XI, serie IV, 14 settembre 1861, pag. 752: ... i Torinesi avevano corso un altro pericolo, di venire, cioè conquistati dai Napoletani e di vedere la bandiera di Francesco II sventolare sulla torre di palazzo Madama. In Italia ... esiste proprio la tratta dei Napoletani. Si arrestano da Cialdini soldati napoletani in gran quantità, si stipano nè bastimenti peggio che non si farebbe degli animali, e poi si mandano in Genova. Trovandomi testé in quella città ho dovuto assistere ad uno di què spettacoli che lacerano l'anima. Ho visto giungere bastimenti carichi di quegli infelici, laceri, affamati, piangenti; e sbarcati vennero distesi sulla pubblica strada come cosa da mercato. Spettacolo doloroso che si rinnova ogni giorno in Via Assarotti dove è un deposito di questi sventurati. Alcune centinaia ne furono mandati e chiusi nelle carceri di Fenestrelle, equi la malesuada fames et turpis egestas li indusse a cospirare; e se non si riusciva in tempo a sventare la congiura, essi 'mpadronivansi del forte di Fenestrelle, e poi unendosi con migliaia di altri napoletani incorporati nell'esercito, piombavano su Torino. Un OTTOMILA di questi antichi soldati Napoletani vennero concentrati nel campo di S. Maurizio, ma il governo li considera come nemici, e, dice l'Opinione, che "a tutela della sicurezza pubblica sia dei dintorni, sia del campo, furono inviati a S. Maurizio due battaglioni di fanteria". Ma si sa che inoltre vi stanno a Guardia qualche batteria di cannoni, alcuni squadroni di cavalleria, e, piú battaglioni di bersaglieri, tanto ne hanno paura! E cotestoro, cosí guardati e malmenati, pensate con che valore vorranno poi combattere pel Piemonte! Eccovi in che modo si fa l'Italia!". Intanto si va a caccia, con forsennata tenacia, di ufficiali Napolitani: "la polizia ... per mettersi al sicuro che, in caso di una sedizione popolare mancassero i capi militari atti a governarla ... arrestò di botto sei Generali dell'esercito napolitano... spacciando di averli scoperti complici d'una tremenda congiura; ed inoltre intimò a moltissimi ufficiali ... che dovessero costituirsi prigionieri in varie castella ... ecco le centinaia d'innocenti oppressi e stretti in duro carcere".

IL GRANDE SATANA

Chi era il machiavellico e spietato Tigellino, il turpe proconsole che faceva arrestare ufficiali e generali delle Due Sicilie? Un piemontese forse? NO! Era lo scellerato rinnegato cerebroleso Silvio Spaventa di Bomba (Chieti), nominato, con decreto del 17 gennaio 1861 in piena resistenza di Gaeta, ministro di polizia dalla famelica cariatide Carignano, obeso da medaglioni e collaroni alla maresciallo sovietico Jakubovskji (dispaccio n. 2966 di Nigra nel citato carteggio: "La nouvelle administration sera composée probable-ment demain. Poerio s'est chargé de proposer au Pr'nce les noms des nouveaux Conseillers; il a proposé Romano à l'Interieur, Avossa, Justice, Spaventa, Pol'ce, Imbriani, Instruction publ'que...). Su questo maganzese kapò, condannato a morte da un tribunale del Regno, ma graziato da Ferdinando II, riferiamo un giudizio dell'eroico cappellano, reduce da Gaeta, don Giuseppe Buttà CHE LO CONOSCEVA PERSONALMENTE per averlo praticato per parecchio tempo (I Barboni di Napoli, 1877, vol. II, pag. 507): "Io lo conobbi questo superbo pezzente di Bomba ... Si vendicò con perseguitare tanti onesti e valorosi uffiziali, capitolati di Capua e di Gaeta ... Lo Spaventa salí a' primi posti nel nuovo stato del regno d'Italia, sempre maledetto da' suoi stessi amici, se pure mai ne avesse avuti. Oggi, mentre scrivo, trovasi tra i Cesars declassès ma egli, son sicuro, rivenderebbe la patria e l'anima sua a Satana per riavere per un giorno, un'ora, un minuto di quel potere birresco per cui sembra nato".

Sentiamo quel che ne dice La Civiltà Cattolica a pag. 503: "A reggere la cosa pubblica e rifare il Regno fu posto, come si sa, il sig. Silvio Spaventa, del quale si può ben dire che regna e governa; poiché del Principe Luogotenente [cioè il Carignano, N.d.R.] e del Segretario Generale Nigra appena è mai che si senta proferire il nome. Lo Spaventa, che per molte parti è degno successore di Don Liborio Romano, procede con mezzi molto diversi. Don Liborio avea sciolti i galeotti a centinaia e commessa loro la custodia dell'ordine pubblico; e la sicurezza cittadina, guarentita dai Camorristi, trionfava a quel modo che tutti sanno. Lo Spaventa ebbe ribrezzo di tale infamia, diede la caccia ai galeotti liberati ... Ma per farsi perdonare queste severità, procurò di offerire ogni quindicina di giorni, una bella ecatombe di realisti borbonici in sacrifizio della rivoluzione fremente. E gli caddero opportunamente sotto la mano certe denunzie di suoi cagnotti o di traditori, per dargli pretesto a carcerare, come cospiratori, il Duca di Caianiello, monsignor Trotta, e qualche centinaio di uomini dabbene, con riserva di trovare o fabbricare poi le ragioni giuridiche di condannarli.". Vediamo che cosa profferisce del suo avo-zio la pronipote Elena Croce, che certamente doveva sapere qualcosa dei vizi di famiglia: "La caricatura del persecutore di camorristi che assume, sembianze di capo camorrista, elaborata a Napoli durante la Luogotenenza, acquistava automaticamente, coi fatti di settembre, nuovo corso. Si disse che Spaventa, chiamati i suoi sgherri napoletani, aveva dato dal suo ufficio, con un colpo di pistola, il segnale perché la truppa aprisse il fuoco sui dimostranti, ed era restato a guardare freddamente, dietro i vetri, fumando un sigaro". Lo dice ma subito dopo lo nega (Elena Croce: Silvio Spaventa, Adelphi, 1969, a pag. 200). Il conte legittimista de Christen dice "Monsieur Spaventa, ancien chef des camorristi de Naples". Eufemisticamente la pronipote lo dice impopolarissimo (pag. 160). Una caricatura di Camillo Marietti, del 24 gennaio 1865, rappresenta questo "augel notturno, sepolcrale e tristo" con corpo e zampe di rapace e testa con occhi di gufo. Ancora, nel 1863, all'epoca della Legge Pica di famigerata memoria (legge terribile, dai procedimenti sbrigativi e sommari ... strumento di dispotismo arbitrario e furibondo, secondo la Enciclopedia Italiana, voce Brigantaggio) formava al Ministero degli Interni, con Pica e Peruzzi che tale legge avevano ideato e firmato, una trimurti di scellerati delinquenti di Stato (Mmiezo a nui na rètena 'e farabbutte / ca tradevano 'a Patria) (F. Russo: '0 surdato 'e Gaeta). Orbene, costui, chiamato dal padrone piemontese C. Nigra a rapporto epistolare, cosí scriveva da Napoli il 19 febbraio 1861 (in allegato alla lettera del Nigra a Cavour n. 3161 del 22 febbraio 1861):


"Eccellenza, Rispondo al suo pregevole foglio del 13 corrente. Sin dal mese scorso ho mandato al Generale Della Rocca un ufizio, esponendogli le ragioni, per le quali io aveva ordinato l'arresto di alcuni Generali del disciolto Esercito Borbonico. Glielo accludo trascritto, e la prego di trasmetterlo a S.E. il Presidente dei Ministri ed al Ministro della Guerra, perché potrà convincerli che l'arresto di quegli officiali non è stato sotto alcun rispetto illegale, ed era reso indispensabile dalle condizioni eccezionali, in cui versava il paese. Non avrei a dirle altro, se non sentissi il debito di sottoporle che gli officiali arrestati non hanno il diritto d'invocare la speciale protezione del ministro della guerra, e quelle garanzie, onde sono rivestiti i soli militari riconosciuti dal Governo. Ed invero gli ufficiali, quando furono arrestati, erano in questa condizione. Alcuni, ed erano pochissimi, avevano già fatto adesione al governo del Re. Altri o ritornavano dagli Stati Pontificii ovvero forniti di congedo illimitato di Francesco 2i venivan da Gaeta. Né gli uni, né gli altri possono essere considerati come militari, e sotto la dipendenza immediata del Ministro della Guerra. Il grado d'ufficiale e i diritti che ne derivano, non possono esser conferiti che da un brevetto firmato dal Re. L'adesione che alcuni uffiziali avean fatto al nuovo ordine di cose, non dava loro se non la facoltà di chiedere d'essere ammessi nell'Esercito Italiano. Il che si ricava da' Decreti del 28 Novembre e del 9 dicembre 1860 per determinare la posizione dei Signori Uffiziali, impiegati amministrativi, etc. procedenti dallo Esercito regolare dello scaduto governo delle Due Sicilie, i quali giustificassero d'aver fatto regolare, adesione, al nuovo ordine di Cose.


L'adesione, adunque non conferiva loro alcuna qualità. Era necessario che la Commissione istituita disaminasse la loro condotta ed i loro requisito, e desse il suo avviso, il quale quante volte fosse stato favorevole, sarebbe stato sottoposto all'approvazione del Ministro della Guerra ed alla sanzione del Re. Gli altri officiali, che tornavano da Gaeta o da Roma, non possono sotto alcun rispetto essere riguardati neanco essi come militari riconosciuti dal Governo. A prima vista parrebbe che si dovessero considerare come prigionieri di guerra. Questo Dicastero non crede dover fare una minuta discussione su questo proposito. è certo però che il Ministero della Guerra non ha preso verso di loro alcuno di quei provvedimenti che soglionsi verso i prigionieri di guerra adoperare, e quindi ha dimostrato col fatto che egli non riconosceva questo carattere negli officiali reduci da Gaeta e da Roma. Quanto a me, credo che costoro, anziché prigionieri di guerra, possano essere ravvisati come ribelli al Re ed alla Nazione; perocché persistettero a battersi dopo il plebiscito; dopo che il Re alla testa dell'esercito era venuto a prender possesso di questa parte d'Italia, dopo che il governo nazionale era costituito di fatto e di dritto su tutto il territorio di queste Provincie.

Lo stesso Comando della Piazza di questa città non ha ravvisato sotto altro aspetto la condizione di cotesti officiali. Ed in vero, quando questo Dicastero lo richiedeva che provvedesse a' mezzi di sostenerli in carcere, si rifiutava con uficio del 7 Gennaio di questo anno, dichiarando di non poter riconoscere il carattere di ufficiali negli arrestati.

Né dissimile è stato l'avviso del Direttore della Guerra, come appare, da un suo ufficio del 14 detto mese.

Non tralascierò di scrivere al Generale della Rocca, perché avvalori presso il Ministro della Guerra della sua autorità le ragioni che giustificano il provvedimento di rigore contro i generali del disciolto esercito, e che egli medesimo aveva approvato".


Vi sono infamie che non bisogna dimenticare e non stancarsi mai di ricordare come pure non bisogna mai dimenticare l'eroismo di quelli che tentarono l'estrema difesa della Patria con sacrificio della vita contro le carogne piemontesi e garibaldine. Questo furfante matricolato, datosi al nemico con tutta l'anima, vero clone del famigerato Manhès di trucida memoria, con le sue disquisizioni apparentemente logiche e dotte non solo si metteva sotto i piedi il trattato della resa di Gaeta, con cui Francesco II aveva tentato di garantire un minimo di sopravvivenza ai suoi soldati ed ufficiali, ma ne diventava pure l'aguzzino. è questo il motivo per cui pubblichiamo per intero la lettera summenzionata, perché il lettore possa rendersi conto di che briganti (verissimi) si impadronirono del nostro Stato. Ma già in un altro precedente rapporto dei 10 gennaio 1861 al Nigra (lettera n. 2961 del citato carteggio) costui afferma: "... ho deliberato di prendere energici provvedimenti verso alcuni ufficiali del disciolto esercito Borbonico... Era urgente ricorrere a mezzi energici specialmente contro gli Uffiziali Superiori, perché piú pericolosi per la loro influenza sovra l'esercito sciolto che era il nerbo delle reazioni. Ho creduto ordinare di arrestarli ed inviarli in Alta Italia ... Elenco dei Generali e Colonnelli del disciolto Esercito Borbonico arrestati per ordine di questo dicastero, e dei quali alcuni sono già partiti: Sig. Antonio Polizzy, Brigadiere; Sig. Girolamo De Liguori, idem; Sig. Giuseppe Ruggiero, idem, Sig. Gaetano D'Ambrosio, Colonnello; Sig. Nicola Gherardo Piazzini, Colonnello al ritiro; Sig. Generale Bartolo Marra; Sig. Generale Andrea Marra; Sig. Generale Giuseppe Palmieri; Sig. Generale Barbalonga".

GLI ALTRI COMPARI

Allo Spaventa davan man forte il Carignano, il Della Rocca e Farini (dispaccio n. 2967 del 16 gennaio 1861 del citato carteggio): "L'arrestation des Generaux et Officiers a été faite par Farini de concert avec le General Della Rocca; ils sont plus ou moins compromis par correspondances et discours, aujourd'hui je les expéd'e à Génes. Je désire que de Turin on nous laisse liberté d'action..." nonostante che il ministro della guerra gen. Fanti (n. 3046 ibidem), per evidenti motivi politici, scrivesse a Cavour "... questo Ministero non riconosce a quella Autorità alcuna facoltà per comandare siano arrestati generali e Ufficiali...". Superflua la traduzione, tanto è lampante. Possiamo osservare che gli invasori si esprimono quasi sempre e solo in francese. Che fratelli d'Italia!! Che comunanza di linguaggio! Non aveva torto il nostro popolo a ritenerli stranieri e a chiamarli francesi e a riversare contro di loro tutto l'odio che dal 1799 veniva nutrito per tutto ciò che sapeva di transalpino.

Il 6 giugno 1861 improvvisamente muore il tessitore dell'invasione, il conte dracula Cavour. Qualcuno mormora che sia stato avvelenato da quel brigante di Napoleone III. I banditi si sa si sbranano tra loro per la divisione del bottino. Il sospetto è legittimo perché quel volpone era intenzionato a mettere sul trono di Napoli suo nipote, il figlio di Murat. Al Cavour succede Ricasoli. Le cose non cambiano, il lupo cambia il pelo ma non il vizio, anzi si va sempre piú duri. Sentiamo che cosa riferisce ancora in proposito La Civiltà Cattolica del 21/9/1861 (Serie IV, Vol. XI, pag. 684) in riferimento al mese di agosto: "... Del resto, se Ricasoli non teme dei Generali ed Uffiziali superiori, perché ne fece, per soli sospetti, arrestare in Napoli oltre a TRENTA i quali furono condotti a Genova sopra un vapore e colà impediti dal ritornare nel Regno?" La notte dell'8 agosto 1861 ci fu una retata ancora piú nutrita: " ... furono arrestati un centinaio di personaggi, contro i quali il dispotismo piemontese sarebbe assai impacciato se fosse costretto a produrre un tenuissimo indizio di prova che macchinassero qualche cosa colpevole; ma che, per la legge dei sospetti, furono trattati come rei d'alto tradimento. Quattro Marescialli, due Generali, sette Brigadieri, due Colonnelli, due Luogotenenti generali, un Maggiore, tre Capitani, un Luogotenente, ed altri uffiziali in numero di 35, di recente assaliti nelle loro case, suggetti ad una perquisizione effettuata nei modi piú brutali, poi condotti al forte del Carmine, e il giorno appresso, in mezzo a file di soldati, come si userebbe con ribaldaglia da galera, scortati al porto, cacciati sopra un bastimento con qualche centinaio di soldati sbandati caduti in mano a' piemontesi, e spediti a Genova... tra i quali son da notare il Fergola, i due Afan de Rivera, il Sigrist, il cui delitto evidentemente consiste nella fedeltà e nel valore con cui difesero i diritti del loro Re Francesco ... In questo frattempo cinque altre grosse terre del Regno venivano barbaramente messe a fuoco e sangue, poi diroccate e distrutte dal furore piemontese ... Montefalcione, San Marco e Rignano sono anch'essi un mucchio di rovine fumanti e sanguinose, che gridano vendetta" (La Civiltà Cattolica, vol. XI, serie IV, 1861, pag. 617). Qualche pagina dopo (pag. 690) il periodico precisa ulteriormente i fatti: i piemontesi carcerarono nella città di Napoli piú di QUINDICIMILA persone; condussero per forza a Genova, in una sola volta, piú di TRENTA Uffiziali superiori dell'esercito napoletano; esiliarono o costrinsero colle vessazioni poliziesche ad esulare presso che l'intera aristocrazia; il popolo è dato in balía ai fuoriusciti di mezza Europa, che sotto il nome di garibaldini, armati di pugnali e di stili, convennero colà, sotto la protezione dei Don Liborii e dei Cialdini, come gli sparvieri alla preda. L'Europa sa ancora che nella fedelissima città di Napoli vi sono certi cannoni sui forti, certi cannoni sulla piazza Reale, certi cannoni che infilano Toledo, certi cannoni in tutti i siti, certi battaglioni sempre armati, certe pattuglie sempre in giro, certi stili sempre affilati, certa sbirraglia sempre in moto, certi argomenti in somma di unità italiana e di concordia fraterna che, se li avesse usati il Re Francesco II, mai non sarebbero entrati in Napoli né Garibaldi né Vittorio Emanuele...... E a pag. 726: "... i due carnefici dell'Italia Settaria, il Cialdini e il Pinelli, stanno mostrando nel Regno di Napoli l'effetto della Massoneria ai popoli conquistati. LE MIGLIAIA DI TRUCIDATI col grido sulle labbra di "Viva Dio e Francesco Il nostro Re", e le CENERI di MONTEFALCIONE, di CASALDUNI, di AULETTA e di PONTELANDOLFO, attestano quali s'eno le dolcezze che questi cavalieri della libertà ritengono in serbo..."

Gli hitleriani non giunsero a tanti eccidii nella Polonia conquistata.

Che calvario infinito, che campo di concentramento, che cimitero sconfinato per la nostra gente il periodo dal 1860 al 1868. Se i sindaci del Sud conoscessero almeno la centesima parte dei fatti che stiamo narrando, se serbassero in cuore un minimo di dignità e di orgoglio napolitano, se mente e sentimento fossero per la propria gente, provvederebbero patriotticamente a purgare le loro città dai nomi di quelle carogne assassine. Essi, i piemontesi, rifiutarono per ben due volte, perché avevano in mente la preda, di dar luogo ad una confederazione tra Napoli e Torino nel comune interesse dell'Italia, confederazione che sia Ferdinando Il che il figlio patrocinarono nel 1848 e nel 1860. Ecco le parole di Ferdinando II: "Noi consideriamo com'esistente di fatto la Lega Italiana, dacché l'universale consenso dè Principi e dè popoli della Penisola ce la fa riguardare come già conchiusa, essendo prossimo a riunirsi in Roma il Congresso che Noi fummo i primi a proporre; e siamo per essere i primi a mandarvi i Rappresentanti di questa parte della gran famiglia italiana". Ma Carlo Alberto rispose che non era tempo di trattare o di conchiudere Leghe, allo stesso modo che successivamente farà il Camillone.

Come fu diversa l'unità a cui pervennero i Tedeschi! Nel 1870, dopo la sconfitta di Napoleone III a Sédan ad opera del Bismarck, tutta la miriade di staterelli compresi tra il Reno e l'Elba si uní spontaneamente intorno alla Prussia, dando luogo al federale Il Reich. Da allora la Germania ebbe un'ascesa culturale ed economica tale che le disfatte di due guerre mondiali non hanno minimamente intaccato. Che cosa è avvenuto da noi quando il magnifico verbo dell'unità e del liberal progresso si disvelò? " ... nun nce sta manco cchiú nu mandarino! / Nun nce sta manco cch'ú na schiocca 'e rosa, / manco 'e ffronne nce stanno, int' 'o ciardino! ... Tutto è distrutto! E tuttuquante 'o ssanno..." (F. Russo: '0 ciardino abbandonato).

Abbiamo cioè subíto stragi e rapine infinite, perso l'indipendenza, la moneta, le buone leggi filtrate da ben ottocento anni di ininterrotta unità statale, la nostra bandiera, ma soprattutto l'orgoglio napolitano che ci faceva decidere del nostro destíno: a tutto ciò fa da buon peso una emigrazione oceanica: le conseguenze nefaste sono sotto gli occhi di tutti.

CAMPI DI CONCENTRAMENTO

Abbiamo deciso di visitare uno dei Gulag in cui furono relegati i nostri fanti. Abbiamo optato per la fortezza di Fenestrelle, questa Grande Muraglia della Val Chisone, abbarbicata ad un costone del monte Orsiera (m 2893). Essa è composta da un imponente sistema difensivo costituito dal forte S. Carlo, forte Tre Denti, forte Elmo e forte delle Valli, collegati fra loro da una scala coperta di 3996 gradini. Per la sua costruzione occorsero quasi due secoli. Fu iniziata nel 1727 dopo la pace di Utrecht (1713), quando i piemontesi vennero in possesso di quel territorio, precedentemente appartenuto alla Francia. Avremmo potuto fare una visitina anche a S. Maurizio Canavese, San Benigno Canavese, a Lombardore (Quando nel settembre del 1861 il ministro Ricasoli e Bastogi lo visitarono vi erano rinchiusi oltre 3.000 soldati borbonici, tenuti come PRIGIONIERI) (Rivista STORIA RIBELLE, n. 1, 1995), al forte S. Benigno di Genova, dove i prigionieri venivano "Gittati come branchi di bestie", ad Alessandria dove "una parte dei prigionieri fu ... chiusa nella cittadella e cacciata in un quartiere sotto strettissima guardia, che non li lasciava uscire neanco per le necessità. Entro quattro gironi di mura, con passi e contrafossi d'acqua corrente e rivell'ni e mezze lune tutto intorno, vedeansi le sentinelle su per le scale e nè corridoi il dí e la notte..." (La Civiltà Cattolica, Serie IV, Vol. XI, pag. 589), tutte immagini da seconda Guerra Mondiale. Ma, dopo centotrenta e passa anni, avremmo ritrovato ben poco.

Fenestrelle
FENESTRELLE, FENESTRELLE

Siamo dunque arrivati alla fortezza del deserto dei tartari, in partibus infidelium, in una giornata di pioggia torrenziale che peggio non poteva essere. Le cime dei monti, tutt'intorno, mese di giugno, sono ancora imbiancate di neve. Il mesto pellegrinaggio conduce alla ricerca dell'anima dei nostri padri. Gli scalini che portano in vetta alla fortezza ti mozzano il fiato per la fatica, sono veramente tanti, occorre un allenamento da scalatori. Ci fermiamo ad un terzo della scalata vicino alla Garitta del Diavolo, da cui si può ammirare tutto il panorama della Val Chisone verso Pinerolo da un lato e fino al Sestriere dall'altro. Silenziosi e cupi ascoltiamo la Guida che, con voce monotona, ma chiara, sotto il fragore della pioggia e l'urlo del vento umido comincia a snocciolare notizie su questa Lubianka sabaudo-siberiana all'ennesima potenza, dove l'inverno dura quasi dieci mesi e il vento, la pioggia, la neve e il ghiaccio la fanno da padrone. I nostri occhi frugano le pietre, i muri alla ricerca di antiche tracce, tracce napolitane. Nella fioca luce del giorno tutto è spettrale. Una scritta quasi sull'ingresso "Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce" ci folgora, ci lascia di sasso. Ci ricorda che qui c'era un inferno: novelli Dante nella dolente città infernale, a testa alta come lui entriamo nel luogo degli strazi e del grido di dolore (quello vero, non quello metaforico, falso e propagandistico messo in bocca al Vittorione stragista dal suo primo ministro). Dicono che la scritta fu apposta durante la Il guerra mondiale, ma forse è lí da sempre, fin da quando la fortezza dei tartari assunse il sinistro ruolo di luogo di relegazione e di sterminio. Il brigante corso, Napoleone, esperto oppressore, vi relegò finanche un principe di Santa Romana Chiesa, il cardinale Bartolomeo Pacca, segretario del papa Pio VI, fatto morire in cattività a Valenza nel Delfinato il 29/8/1799.

CALCE VIVA

Ci rendiamo conto, e ce ne danno conferma le parole della Guida, che da qui nessun Conte di Montecristo poté mai evadere: la vita nella fortezza, anche per i piú robusti, non superava i tre mesi. Inoltre, palle di ferro di 16 kg ai piedi tenevano prigionieri i prigionieri; si usciva dalla fortezza, libertà nella morte, solo per essere dissolti in una grande vasca di calce viva. I tedeschi successivamente affinarono la tecnologia: forni crematorii invece dell'ossido di calcio.

Ecco quale fu, orrore!, la tragica sorte, decretata dai mostri savoiardi, di quasi tutti gli ufficiali del Regno delle Due Sicilie deportati (a cui collaborò indefessamente il signor Silvio Spaventa) e di gran parte della nostra Armata, a parte quelli che furono immediatamente fucilati dopo la resa, come accadde a Civitella del Tronto, per mano del rinnegato generale napolitano Mezzacapo, uscito dai ranghi della Nunziatella. L'ascesa delle anime dei nostri poveri soldati verso l'aldilà veniva facilitata dalla "scala verso il cielo " coperta, che dal fortino Carlo Alberto (a 1154 m) come un gigantesco rettile dormiente s'arrampica verso l'alto fino a 1754 metri. Intorno, muraglioni spessi parecchi metri che dovevano resistere ad eventuali assedii. Lí e negli altri campi di concentramento "Le vittime dovettero essere migliaia anche se non vennero registrate da nessuna parte. Morti senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo. Morti di nessuno. Terroni" (Lorenzo del Boca, Maledetti Savoia, ed. PIEMME, 1998, pag. 146). L'orrendo genocidio ci porta a gridare insieme al poeta

"O VENDETTA DI DIO PERCHÈ PUR GIACI ?"

Pochi sono stati, eccetto gli storici borbonici, quelli che hanno parlato dei crimini savoiardi, come ad esempio il giornalista piemontese Del Boca. Il tanto decantato libro del De Cesare, La Fine di un Regno, tace assolutamente. Solo questo fatto deve metterci in guardia circa la sua presunta obiettività. Perciò leviamo riverenti la mente a Del Boca che dedica ben 4 pagine del suo libro ai campi di concentramento sabaudi.

Il maledetto 1860 fu non solo il dramma di una dinastia, ma la tragedia di tutta una nazione.

Il castello di lurido retoricume e becere menzogne sotto cui quel cadavere sanguinolento fu sepolto comincia a sfaldarsi.

RIN

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CUCINA E TRADIZIONE

Alcuni mesi fa ho conosciuto la signora Giuseppina Milo di Salerno, titolare di un negozio sito in viale Gramsci a Modena. Un piccolo locale, ma bene assortito di generi alimentari provenienti dal nostro Sud. Nel corso dei colloqui intrapresi tra un acquisto e l'altro, la signora si è mostrata molto sensibile ai problemi socioeconomici che affliggono il Sud, per questo ha voluto che lo slogan "COMPRA SUD, SUD È MEGLIO, propagandato da Nazione Napoletana, venisse utilizzato per i suoi biglietti da visita, condividendo la politica che il nostro movimento attua da qualche anno.

Osservando i vari prodotti esposti, si evidenzia la mozzarella di bufala di Aversa o di Capua, non quella semiplastificata che viene spacciata per autentica, i cui spot televisivi, per aumentare le vendite, utilizzano il dialetto di finti napoletani. Basta un rapido sguardo per rendersi conto che i prodotti esposti sono di ottima qualità, con prezzi addirittura inferiori ai vari supermercati: salami, provolone, pasta, torroni, ingredienti per pastiera, struffoli, liquori e il vero inimitabile latte di mandorla, che solo da noi sanno fare. Insomma questo negozio per noi meridionali è una "benedizione di Dio" e ci fa sentire ancora a casa.

Ma voglio fare un'altra considerazione: se ognuno di noi acquistasse soltanto prodotti provenienti dal Sud, ne faremo aumentare la produzione e noi stessi potremmo contribuire notevolmente a far aumentare posti di lavoro nelle nostre regioni.

La cucina del Sud, in genere, è uno dei pilastri della gastronomia italiana e pur essendo fantasiosa essa si fonda su ricette semplici, come semplici e meravigliosi sono i nostri paesaggi. Preferire i prodotti delle nostre regioni non ha, tuttavia, fondamento solo nella golosità, essi rappresentano anche dei valori che esistono da secoli nelle nostre tradizioni. Mangiare il panettone a Natale o la colomba (che è poi la stessa cosa) a Pasqua, non fanno parte delle nostre tradizioni, sono cose che ci hanno imposto dal Nord, che, privi di fantasia, danno nomi diversi a un semplice "pan di Spagna" un po' elaborato.

Quasi in tutto il Sud ci sono dolci per tutte le festività importanti: Sanguinaccio a Carnevale, Quaresimali durante la Quaresima, Zeppole per S. Giuseppe, Pastiera a Pasqua, Torrone il primo di Novembre, Pasta di mandorle, Roccocò, Susamielli e Raffiuoli il 24 dicembre, Struffoli il 25 dicembre. La Pastiera e il Casatiello hanno entrambi una valenza simbolica, associata al rito religioso della passione, morte e resurrezione di Gesú, in armonia con l'equinozio di Primavera e la rinascita della natura. Il grano per la pastiera deve, secondo la tradizione, macerare per sette giorni al buio prima di essere utilizzato. Il grano nella storia delle religioni mediterranee è un simbolo profondo. Vi era nei misteri Eleusini una suggestiva cerimonia che ricordava l'unione mistica di Zeus con Demetra come Dea della fecondazione e come l'iniziatrice ai misteri della vita. Per la religione cattolica la macerazione del grano simboleggia la passione e la morte del corpo di Cristo, per risorgere a nuova vita. Infatti, il grano lavorato con altri ingredienti, fra i quali le essenze di millefiori, porta con sé il profumo della terra che si risveglia dopo la morte dell'inverno. Il "Casatiello", pizza rustica pasquale, è una pietanza povera, in quanto la parte ripiena è riciclata dagli avanzi di salame, formaggio e mortadella amalgamati con pasta e sugna. Ha la forma di una ciambella con quattro uova sode immerse nella pasta e sovrapposta da striscette a forma di croce. Ricorrente è il simbolo dell'uovo e della croce. Il primo è il simbolo del principio della vita, dell'"Alfa", ciclo che si rinnova, con l'acqua, l'aria, la terra, il fuoco. Ogni uovo è un elemento chiuso da una striscetta a forma di croce (omega) nel cui centro tutto si compie, vita, morte, resurrezione. Queste considerazioni oggi possono passare inosservate, ma i nostri nonni erano al corrente di queste tradizioni, le quali creavano l'armonia tra spirito e materia.

Consumare prodotti del Sud è un rito che si rinnova nel segno delle "sinestesie ", cioè l'associare al profumo, al gusto, un ricordo, un'immagine, un'evocazione quasi fisica.

Per quanto riguarda l'aspetto proteico e dietologico, la cucina delle Due Sicilie ha un primato unico al mondo. Da tutti i medici è, infatti, consigliata la dieta mediterranea a base di legumi, pesce, verdure e frutta. Nel 1991 ad un convegno presso la "Court of historical rewiew" di San Francisco (U.S.A.), Maurice St. Ives sostenne, in base a documenti storici, che la pizza ha tremila anni. Deriva da un termine latino "picea", che significa "di pece", qualcosa di schiacciato, caldo, e indicava una pietanza che si cuoceva su una piastra bollente. La pizza, pietanza completa, punto d'incontro fra gusto aristocratico e popolare, ha celebrato tra il 700 e l'800 i suoi trionfi nel capoluogo partenopeo, da secoli capitale della cultura e delle tradizioni piú arcaiche. A Napoli il cibo diventa modo di pensare e di vedere la vita. Solo a Napoli la pizza è gioia di vivere, di incontrarsi dinanzi a quel magico cerchio variopinto, che oltre a placare i morsi della fame, coinvolge i cinque sensi. L'occhio è catturato dal contrasto dei colori, l'orecchio dallo schioppettío del forno a legna, l'olfatto dal profumo, il gusto dal mangiare e dal tatto, perché la pizza si mangia anche con le mani.

Due gli episodi nella storia della pizza. Il primo è quello di Re Ferdinando II, che nel 1835, si infila, senza svelare la sua identità, nella pizzeria del famoso Testa per assaggiare la focaccia partenopea di Domenico, il cuoco, al quale poi commissiona un forno per la pizza a corte. Il secondo, era l'11 giugno del 1889, quando Camillo Galli, capo dei "servizi" di tavola dei Savoia, aveva ordinato qualcosa di speciale alla pizzeria Brandi. Il pizzaiuolo Raffaele Esposito allora creò una pizza con i colori "nazionali". Margherita di Savoia l'assaggiò e, compiaciuta, diede il suo imprimatur a quella pizza, che da allora si chiamò Margherita. Con la conquista del Sud, i Savoi impressero il loro marchio infame anche nelle nostre pietanze piú famose, cosa che non fece Ferdinando II.

L'industria alimentare nel 1840 era diffusa in tutte le nostre province. L'industria della pasta era nata nel Napoletano e vi erano stabilimenti in quasi tutte le piú grandi città. La pasta prodotta godeva di grande fama soprattutto all'estero. Nel 1859 i pastifici piú importanti erano circa un centinaio. Larghissima anche la diffusione dei "trappeti", stabilimenti per la spremitura delle olive, particolarmente nelle Puglie, che avevano il primato mondiale dell'esportazione dell'olio in tutto il mondo via mare con una capacissima flotta di navi mercantili.

Occorre accennare, poi, alla vivacissima attività dei caseifici, particolarmente di quelli dislocati in Campania, nelle Puglie, nelle Calabrie e negli Abruzzi. La lavorazione riguardava particolarmente il latte di pecora. Numerosissime erano gli stabilimenti per la conservazione del pesce e del pomodoro. Famose erano le fabbriche di liquirizia nelle Calabrie, come quelle di liquore, come l'ineguagliato "Centerbe del Toro" di Tocco Casauria negli Abruzzi. Da ricordare le fabbriche di cioccolato e di confetti, particolarmente a Sulmona.

Con l'invasione piemontese quasi tutte le fabbriche furono smantellate e le poche rimaste appartenevano agli "amici" degli invasori savoiardi. Cirio, ad esempio, era un piemontese che si mise a produrre concentrato di pomodoro dopo essersi accaparrato alcune nostre industrie.

Gennaro Pisco

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LA ARCICONFRATERNITA DELLO SPIRITO SANTO DEI NAPOLITANI A ROMA

A chi distratto e frettoloso turista si trovasse a passeggiare a Roma sulla sponda sinistra del Tevere, converrebbe cercare l'antica Via Giulia e iniziare a percorrerla, magari partendo dal famoso e frondoso arco della Chiesa della Morte e Orazione. è d'uopo a questo punto porre da parte la sua distrazione e a metà strada circa cercare sulla sinistra la facciata di una Chiesa, per la verità piuttosto dimessa rispetto al rigoglio delle antichità e del barocco finora ostentato da questa città, ma che reca dipinto sull'alto il complicato e inconfondibile stemma della onorata Casa di Borbone delle Due Sicilie. Si tratta della Regia Chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani, Chiesa Nazionale delle Due Sicilie ed ex Sede della Arciconfraternita dello Spirito Santo dei Napoletani.

Senza voler entrare nella storia del sistema confraternale (ché non basterebbe certo un articolo a descriverlo), basti solo dire che il sistema assistenzialistico dei Paesi europei cattolici, e in particolare d'Italia, dal medioevo fino almeno a tutto il secolo scorso, era basato sulle Confraternite. Cioè sulla mutua assistenza. La Confraternita è una associazione di Laici, abitanti nello stesso luogo, governata da propri ufficiali, con un proprio Statuto, che si raduna periodicamente in vista di uno scopo spirituale comune1. La necessità di non limitare le proprie attività alle sole pratiche spirituali ma di aiutare anche evangelicamente il prossimo (cioè fatti, non solo parole!), indirizzò storicamente le Confraternite sulla strada dell'assistenzialismo sociale facendole diventare in breve necessarie alla Società del tempo. Queste Associazioni pertanto divennero ricche, popolarissime e talvolta potenti, ma col trascorrere dei secoli il campo delle loro attività iniziò a restringersi perché i governi nazionali andavano sempre piú migliorando il loro impegno nell'assistenza sociale2, cominciò a venir meno l'appoggio popolare e iniziò la naturale decadenza. In questo senso esse furono aiutate anche dalle politiche sospettose dei vari governi che vi vedevano centri occulti di potere reazionario, ma soprattutto facili occasioni di furto di regime3.

Nel lontano 1572 i napoletani piú in vista residenti a Roma decisero di fondare una Confraternita4 per accogliere i "Fedeli Christiani delle Nationi del Regno di Napoli, e nessun altro fuorché gl'habitanti del Regno"5, ove fossero stati nella necessità di un aiuto. Questa Confraternita fu intitolata, molto diplomaticamente, allo Spirito Santo, cosa che non scontentava gli abitanti di nessuna regione del Regno delle Due Sicilie. Negli anni successivi si fondò un Ospedale, un Ospizio per ricovero degli infermi poveri e un Collegio, si riuscí a dotare annualmente sei ragazze bisognose e finanche ad ottenere il privilegio di liberare un condannato a morte.

Gli introiti provenivano dalle contribuzioni degli iscritti e da collette nel Regno, ma anche da lasciti di benefattori, come il Card. Innico d'Avalos d'Aragona, primo Cardinale protettore nel 1572, Mons. Pietro Corsi, calabrese, Violante Sanseverino, napoletano, Mons. Sersale, sorrentino, i Geruzzi e i Noghera, aquilani, e molti altri6, tanto che nel XVII secolo questa Confraternita era equiparata alle altre principali Confraternite Nazionali istituite a Roma7 e di cui i residenti delle Due Sicilie andavano ben fieri. Altri introiti provenivano dalle rendite di tre Badie in Regno, dall'arrendamento "della farina vecchia" in Napoli, dalla Regia Chiesa sul banco di S. Carlo in Madrid, piú varie case di proprietà in Roma. Con la Bolla di erezione canonica (1585), la Confraternita aveva ottenuto anche il titolo di "Arciconfraternita", cioè di Confraternita con particolari privilegi, fra cui quello di aggregare altre Confraternite che ne condividessero gli scopi8, e a cui venivano dispensate le Grazie spirituali che di volta in volta i Pontefici le concedevano, come le famose "Indulgenze" che tanta popolarità ebbero nei secoli passati. I confratelli inizialmente si riunivano nel Chiostro di S. Trifone degli Agostiniani, indi riuscirono ad ottenere la Chiesa di S. Aurea a Via Giulia. Nel 1649 ne fu affidata la ricostruzione all'Arch. Cosimo Fanzago, che, contrariamente al suo solito, fece un lavoro giudicato molto negativamente, tanto che nel 1667 la facciata dovette essere rifatta dall'Arch. Carlo Fontana.

Questa Chiesa è tra l'altro famosa per essere stata la dimora delle care spoglie di Francesco II, Maria Sofia e della piccola Maria Cristina Pia, fino al 10 Aprile 19849, giorno in cui furono finalmente prelevate e riportate in Patria. Nel 1799 il vento della rivoluzione e le susseguenti orde francesi che la sostenevano, spazzarono via Ancient Règime e tutte le sue strutture, comprese quelle che in fondo erano buone.

A Roma dopo l'entrata dei francesi, il nuovo regime che si era instaurato decretò, fra l'altro, lo scioglimento anche di questa Arciconfraternita e lo spogliamento della sua Chiesa "a vendetta del Sovrano di Napoli"10. Le stesse cose si ripeterono durante il breve periodo della Repubblica Romana nel 1848 (?). Ma l'Arciconfraternita era da considerarsi ormai estinta e a nulla valsero gli sforzi del Card. Fabrizio Ruffo (nuovo Cardinale Protettore) per rivitalizzarla. Le amministrazioni successive si dibatterono fra litigi, polemiche, sperperi e appropriazioni indebite, ma la colpa non era solo di quei lontani amministratori: l'Arcicon-fraternita dello Spirito Santo dei Napoletani si era estinta semplicemente perché le reali necessità che erano alla base della sua istituzione e che ne costituivano le Opere Pie, si erano svuotate dell'interesse proprio di chi doveva usufruirne.

Rimane la Chiesa. Chi fosse cosí interessato a visitarla e fortunato a trovarla aperta11, rimarrà stupito dalle memorie che vi scoprirà all'interno. "Mano a mano che i nostri passi ci conducono verso altari, lapidi, quadri, la storia sembra snodarsi, rinascere da ogni segno, da ogni nome"12. E dovrà immaginare come secoli fa essere a Roma equivaleva pur sempre ad essere in terra straniera, e che quella Confraternita rappresentava una vera e propria propaggine delle Due Sicilie con gente che parlava un idioma conosciuto e che era lí per aiutare il prossimo di propria iniziativa

Franz Sepe

NOTE
1 Cfr. G. C. MEERSEEMAN, Ordo Fraternitatis, Confraternite e Pietà dei Laici nel Medioevo, Roma, 1977, p. 10.
2 C'erano Confraternite che si occupavano dei poveri, dei carcerati, dei condannati a morte, degli infermi, del seppellimento dei cadaveri abbandonati, degli orfani: in genere di ogni bisogno essenziale della Società. Le Confraternite della Misericordia sono tuttora popolari ed attive (soprattutto nell'Italia centrale) nel campo dell'assistenza medica con proprie ambulanze.
3 In Italia si ebbero le tristemente famose leggi eversive dell'asse ecclesiastico, che a partire dal 1861, accomunando le Confraternite a istituzioni religiose e fanatiche, le privarono di tutti i beni che consentivano loro di operare, spingendone moltissime all'estinzione.
4 Dopo la chiusura del Concilio di Trento (1563) la fondazione di Confraternite fu favorita e incoraggiata. L'erezione di questa Confraternita è da inquadrare in questo clima socio-religioso.
5 Cfr. Archivio Storico del Vicariato di Roma (AVR), Erettione della V. Archiconfraternita dello Spirito Santo di Roma, Fondo Confraternita dello Spirito Santo dei Napoletani, Scaffale 174.
6 Cfr. L. LANCELLOTTI, La Regia Chiesa dello Spirito Santo, Napoli, 1868, p. 16.
7 Spagna, Austria, Russia, Polonia, Portogallo, Francia, ma anche città come Firenze, Lucca, Siena, Milano, avevano Chiese e Ospizi per assistenza dei propri sudditi o concittadini che avevano la ventura di risiedere o di passare per Roma.
8 Nella documentazione relativa si rintracciano i titoli di alcune Confraternite che effettivamente si aggregarono nel corso del XVII XVIII secolo.
9 Per ulteriori informazioni in merito, cfr. G. DELL'AJA, Per la traslazione in S. Chiara di Napoli dei resti mortali degli ultimi sovrani delle Due Sicilie, Napoli, 1984.
10 Cfr. L. LANCELLOTTI, La Regia Chiesa, op. cit., p. 22.
11 La festa della Chiesa è, ovviamente, il 19 Settembre: S. Gennaro.
12 M. MARONI LUMBROSO/A. MARTINI, Le Confraternite romane nelle loro chiese, Roma, 1963, p. 406.

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LE VOCI DI DENTRO

Parallelismi: Hawai'i indipendente

Caro Direttore, prendo lo spunto da un articolo apparso il 14 agosto scorso sul Gazzettino per paragonare la situazione delle Hawaii a quella delle Due Sicilie. Il Regno delle Hawai'i era stato riconosciuto nel 1826 dagli Stati Uniti d'America, nel 1843 dalla Francia e dalla Gran Bretagna. Nel 1839 fu rovesciato militarmente da parte di un gruppo di diplomatici e uomini d'affari americani con l'aiuto dell'esercito degli Stati Uniti. Nel 1898 fu poi annesso come "Territorio dell'Unione". Nel 1959 un referendum sancí l'annessione completa agli Stati Uniti. Oggi il popolo delle Hawaii (di cui i "nativi" costituiscono solo il 20%), richiede la sua indipendenza, e ha la speranza di potercela fare. Il referendum infatti non contemplava tra le possibilità di scelta quella di poter essere un Paese indipendente. L'annessione è illegale. Anche un documento dell'ONU consiglia di far ritornare le isole Hawai'i nella lista di nazioni che non godono di un proprio governo autonomo e dove la popolazione indigena è stata colonizzata da un paese straniero. Questa azione, se attuata da parte dell'ONU, renderebbe le Hawai'i eleggibili del diritto di "decolonizzazione" e quindi la secessione, dal punto di vista giuridico e teorico, potrebbe essere possibile. Con i dovuti distinguo, la situazione dell'Italia meridionale non appare molto diversa.

Le Due Sicilie furono conquistate militarmente nel 1860 (senza dichiarazione di guerra) da parte di truppe del Regno Piemontese (o di Sardegna), senza il loro intervento, infatti, i garibaldini (comunque inviati dal Piemonte) non avrebbero potuto mantenere i territori conquistati (conquista resa possibile principalmente grazie a promesse fatte alle popolazioni locali e mai mantenute). A quell'epoca le Due Sicilie erano uno Stato indipendente e sovrano, riconosciuto da tutte le potenze mondiali. Il referendum che sancí l'annessione della Sicilia e del Napoletano (parte continentale del Regno), è ormai provato oltre ogni dubbio che fu una farsa, non fu possibile esprimere liberamente (e quindi segretamente) il voto dal momento che c'erano due urne distinte, una per il sí, e l'altra per il no! Bisognava prendere la scheda che si voleva e, davanti a tutti, inserirla nell'urna prescelta! Mercenari stranieri presenti tra i garibaldini furono anche ammessi al voto, cosí come ai garibaldini fu permesso di votare numerose volte! Tanto è vero che il referendum non corrispondeva al volere delle popolazioni conquistate che furono necessari 100.000 soldati piemontesi, in Italia meridionale continentale, dal 1860 al 1870 per "mantenere" le Due Sicilie nel Regno piemontese (che cambiò il suo nome in quello di Regno d'Italia, rimanendo però immutato nella sostanza). Nello stesso periodo in Sicilia avvennero rivolte. Da allora l'ex Due Sicilie sono diventate una colonia dell'Italia settentrionale, il divario economico tra nord e sud è infatti sempre aumentato dall'annessione in poi, e non è diminuito. Risorse furono e sono drenate dal sud per favorire lo sviluppo del nord. Il Sud, tutt'oggi, è in una posizione economica di sottosviluppo.

Non è quindi del tutto impossibile sperare che, come per le Hawai'i, un giorno si possa giungere a mettere anche le Due Sicilie nella lista delle nazioni che non godono di un proprio governo autonomo e dove la popolazione indigena è stata colonizzata da un paese straniero. E quindi rendere le Due Sicilie eleggibili del diritto di "decolonizzazione" e permetterne quindi la secessione dallo Stato Italiano (erede di quello piemontese). Certo bisogna darsi da fare per giungere a questo, però l'esempio delle Hawai'i potrebbe lasciar ben sperare.


Carmine C., Oakland, CA, U.S.A


Caro Carmine, certo bisognerebbe darsi da fare, ma dov'è la giustizia? Dov'è la sovranità del popolo in Italia?


Per le prossime festività natalizie

Caro Dr. Pagano, desidererei che nel suo prossimo numero, avvicinandosi le Sante Festività, e poiché bisogna essere buoni, di non parlare piú male dei Piemontesi, di Garibaldi e compagnia cantante. Noi dobbiamo porgere l'altra guancia e quindi fare anche a loro i migliori auguri per il S. Natale. Auguriamo loro di ricevere la stessa libertà che ci hanno donato, sottraendoci fraternamente dall'oppressione dei Borbone, di godere delle stesse cose che loro ci hanno portato in questi 138 anni di unità italiana e di godere delle stesse ricchezze che ci hanno profuso a piene mani. Statevi bene.


Gerardo P., Atripalda (AV)


Caro Signor Gerardo,

Le dirò in tutta confidenza che qualche anno fa, quando non avevo un minimo di esperienza giornalistica, proposi la stessa cosa al nostro Direttore Responsabile, il quale me la sconsigliò, dicendomi che sapeva un po' di cattivo gusto. Ed in effetti aveva ragione, tanto che non se ne fece nulla. Ma ecco che la sua lettera di colpo mi ha fatto ricordare l'episodio e questa volta, non me ne voglia il caro Marzocco, mi associo alla sua richiesta. Anzi, mi sento cosí buono, che ai piemontesi ed ai loro manutengoli mi sento di augurare il doppio di quello che hanno fatto a noi. Interpretando Nostradamus sembra proprio che succederà cosí. Forse sarà Bossi che ... "libererà" tutto il Nord.


Ce lo mettono senza vaselina

Caro Direttore, nel '95 il presidente del consiglio Dini, accompagnato dal suo ministro degli esteri Susanna Agnelli, fece un accordo commerciale con i paesi del Magreb, per cui avremmo importato olio ed agrumi ed esportato macchine per movimento terra prodotte al Nord. La notizia ebbe scarso spazio su tutti i giornali, ma il prezzo dell'olio e degli agrumi prodotti al Sud subirono quell'anno un calo del 30%.

In questo periodo (luglio - agosto '98), nel tentativo di limitare il flusso dei clandestini, l'immarcescibile ora ministro degli esteri Dini, ha proposto a Marocco e Tunisia l'importazione verso l'Italia di migliaia di tonnellate di olio da far raffinare ad un'azienda toscana. Scusi Direttore, Dini è per caso toscano? I produttori di agrumi e di olio della Sicilia e del Sud sono veramente fortunati ad avere un ministro che ha tanto a cuore l'occupazione e l'economia delle Due Sicilie. Chiudo segnalandoLe la risposta data dall'ex presidente della DC Flaminio Piccoli in un'intervista rilasciata al "Giornale" del 5 settembre scorso. Alla domanda del giornalista: "... e Dini?" - "È un massone! Per di piú prigioniero dei suoi interessi personali".

Cosa ne pensa Direttore ?


Attilio Scerra, Paola (CS)


Caro Attilio, si legga il titolo che ho dato alla Sua lettera

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Ultimo aggiornamento: 5 ottobre 1998, lunedí