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Religione e scienza sono incompatibili, specialmente tra i biologi

Gli scienziati credono in dio?

di Daniele Raimondi [17 giu 2011] - da CronacheLaiche.it
lunedì 20 giugno 2011
La religiosità legata all’ignoranza?

"Hallahmi e Argyle osservano che alcune religioni, tra cui spicca il cattolicesimo, hanno una rigida e autoritaria struttura gerarchica, che storicamente ha preteso obbedienza piuttosto che promuovere lo sviluppo del libero pensiero. «In addition, some religious traditions (e.g. Roman Catholic) are quite hierarchical and authoritarian, and in the past at least have required obedience rather than critical thinking, and taught that innovation and independence were not welcome"».

Nelle dispute verbali tra atei e religiosi, è molto frequente finire a discutere di ciò che gli scienziati pensano riguardo alla religione. Gli argomenti dei non credenti sono solitamente in gran parte di stampo scientifico, come l’evoluzionismo o le teorie cosmologiche, mentre i credenti si appellano a tali discipline utilizzando l’argomento del “molti scienziati famosi credono in dio” per mostrare come scienza e fede non siano realmente in contrasto. Questa argomentazione può sembrare un inconscio modo per discolparsi del fatto di aver deliberatamente sospeso il proprio giudizio razionale e critico per quanto riguarda tutto il settore religioso-mistico-spirituale dell’esistenza, ma il problema principale è che tale affermazione non è nemmeno vera.

Nel XX secolo, infatti, sono state compiute parecchie indagini sociologiche riguardo ciò in cui gli scienziati credono o non credono. Una delle analisi più famose, “Leading scientists still reject God” (“I maggiori scienziati rifiutano ancora Dio”) di Edward J. Larson e Larry Witham, è stata pubblicata nel 1998 sulla prestigiosa rivista Nature. Il primo studio in questo senso, che anche Larson e Witham considerano una pietra miliare, è stato effettuato nel 1914 dallo psicologo James H. Leuba, che analizzò le opinioni religiose di 1000 scienziati statunitensi scelti in maniera casuale, da cui risultò che il 58% di essi non credeva o era dubbioso riguardo l’esistenza di un qualsivoglia dio. Già nel 1914, restringendo il campione scelto ai 400 piú importanti scienziati americani, la percentuale di ateismo e agnosticismo saliva al 70%. Nel 1933, quindi 19 anni dopo, Leuba ripetette tale studio e constatò che entrambe le percentuali erano cresciute, rispettivamente al 67 e all’85 per cento.

Nel 1996 Larson e Witham hanno ripetuto per la terza volta lo studio proposto da Leuba, scoprendo che per quanto riguarda il campione più esteso di scienziati, dal 1914 ad oggi, la percentuale di atei e agnostici è salita di due soli punti percentuali, assestandosi al 60,7%. Il grande cambiamento si è invece verificato nel campione di scienziati d’élite, estratti a caso tra i membri della National Academy of Science: di essi, solo il 7% ha dichiarato di credere in qualche forma di essere superiore. L’oscar della miscredenza spetta in questo caso ai fisici, con il 79% di atei (senza contare gli agnostici, quindi!), mentre i piú pii si sono rivelati i matematici, con il 14.3% di credenti. Il tasso più basso di credenti è stato raggiunto dai biologi, con il 5.5% (7.5%tra i fisici e gli astronomi). Qui è visibile la tabella riassuntiva delle percentuali.

Una analisi estremamente ampia e approfondita è stata fatta da Benjamin Beit-Hallahmi e Michael Argyle nel loro libro “The psychology of religious behaviour, belief and experience”, in cui viene mostrato come, nel 1954, ci fossero dei fortissimi squilibri tra le credenze degli scienziati e quelle dell’intera popolazione americana, anche all’interno delle singole religioni. Nonostante la percentuale di atei statunitensi fosse del misero 2.1%, a tale ristretta comunità apparteneva ben il 45% degli scienziati totali. Anche il 3% di ebrei tra la popolazione triplicava, portando a 9% la percentuale di ebrei nel modo accademico. Nonostante la popolazione americana fosse composta dal 66% di protestanti e dal 26.2% di cattolici, tali credo religiosi rappresentavano, all’interno della comunità scientifica, solo il 23% di scienziati protestanti e meno dell’1% di cattolici. Lo stesso studio mostrava anche che, mentre per quanto riguarda le religioni il credo dei genitori ha una influenza apprezzabile sul credo dei figli, solo l’8% degli scienziati che si era dichiarato ateo era figlio di genitori che non professavano alcun credo religioso.

Di seguito è riportata la tabella redatta da Lenski nel 1963 utilizzando dati risalenti al 1954 (per quanto riguarda gli scienziati) e del 1957 per quanto riguarda la popolazione americana:

Credo Religioso % di scienziati % genitori % popolazione USA
Protestanti 23 53 66.3
Cattolici <1 5 26.2
Ebrei 9 23 3
Atei 45 8 2.1
Altro/Agnostici 23 5 1.9

Nel 1988 Ben Hallahmi verificò che tra i vincitori di premi Nobel, sia scientifici che letterari, è estremamente diffuso un notevole grado di irreligiosità, se paragonato alle abitudini religiose delle nazioni da cui essi provengono: «there was a remarkable degree of irreligiosity, as compared to the populations they came from». Secondo quanto riportato da Hallahmi e Argyle nel loro saggio, un buon numero di scienziati ha indubbiamente sperimentato situazioni di conflitto tra il loro lavoro accademico e la religione, e tale problematica ha avuto una specifica evoluzione storica. Negli «early days of science», cioè nel diciassettesimo secolo, i protestanti erano favorevoli all’indagine scientifica, che sembrava un eccellente mezzo per attribuire maggiore gloria all’opera di creazione divina. I problemi sorsero più tardi, cioè quando la scienza iniziò a essere in disaccordo, circa l’origine ed il paradigma evolutivo della vita, con quanto affermato nell’Antico Testamento.

Hallahmi e Argyle osservano che alcune religioni, tra cui spicca il cattolicesimo, hanno una rigida e autoritaria struttura gerarchica, che storicamente ha preteso obbedienza piuttosto che promuovere lo sviluppo del libero pensiero. «In addition, some religious traditions (e.g. Roman Catholic) are quite hierarchical and authoritarian, and in the past at least have required obedience rather than critical thinking, and taught that innovation and independence were not welcome».

I ricercatori concludono affermando che dottrine che insegnano a osteggiare innovazione ed indipendenza intellettuale difficilmente possono produrre persone con la giusta forma mentis per giostrarsi agilmente e con profitto nel mondo della ricerca scientifica: «those so taught would not be likely to do well in scientific research».

Daniele Raimondi


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