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Perché i ragazzi sono in strada

Una legge che conserva la disuguaglianza

di Paolo Flores d’Arcais - Il Fatto 8.12.2010
domenica 12 dicembre 2010
Gli studenti non mollano, per fortuna. E non molleranno, siamo certi. Hanno il grazie di tutta l’Italia civile. Al loro sacrosanto impegno di lotta, Gelmini-Maroni-Berlusconi sanno opporre solo il manganello. E, accompagnati dal solito coro benpensante, la giaculatoria che obietta: ma una riforma radicale è necessaria! Benissimo: sarete d’accordo, per cominciare, che quella di Gelmini/Tremonti non è radicale perché non è una riforma. In realtà è peggio di una controriforma, è l’ultima mazzata data all’istruzione pubblica in Italia.

Una riforma dell’università, per essere tale, deve cominciare dal diritto allo studio. L’articolo 34 della Costituzione, disatteso come tanti altri, prescrive: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi piú alti degli studi”. A questo punto il benpensante immagina di aver messo i manifestanti nel sacco e contro gli studenti sermoneggia: meritocrazia, meritocrazia! D’accordo. Ma se il criterio della selezione deve essere il merito si devono garantire – rigorosamente – eguali chance di partenza, altrimenti non è meritocrazia ma redditocrazia o se si preferisce figli-di-papà-crazia.

Meritocrazia significa dunque borse di studio in quantità industriali per chi appartiene a famiglie dal reddito medio-basso. E la possibilità di controlli fiscali indipendenti, perché a goderne non siano i figli di opulenti evasori. Borse di entità tale da consentire allo studente di studiare, non di dividersi tra studio e lavoro: se per pagarti l’affitto di fuorisede sei costretta a fare la cameriera in un ristorante o lo scaricatore ai mercati generali, dove sono finite le eguali chance di partenza? La soluzione dei “prestiti sull’onore”, che tanto piace ai liberisti, è la piú smaccata negazione della meritocrazia, cioè delle eguali chance di partenza: lo studente esce dall’università come un mutuo ipotecario vivente, anziché come un laureato eguale agli altri, e in tempi di lavoro precario vivrà indebitato fino alle calende greche.

Non parliamo poi dei “bonus” da spendere dove meglio si preferisce, università pubblica o privata, qui l’orgia liberista celebrerebbe sabba clerical-confindustriali: le eguali chance di partenza diventano bestemmia solo a menzionarle, insieme alla libertà di insegnamento, costretta in camicie di forza di ortodossie reazionarie.

Ma le università, se si cerca l’eccellenza, costano e moltissimo, negli States decine di migliaia di dollari l’anno, qui da noi gli studenti vogliono le nozze con i fichi secchi, tromboneggiano i benpensanti d’ordinanza: bisogna aprire ai privati, e alle loro finalità di profitto, altre “modernità” sono solo infantile utopismo. Davvero? Eppure ci sarebbero parecchi modi per tenere insieme meritocrazia, egualitarismo ed efficienza.

Una ipotesi tra le tante: gli studenti non pagano nulla, e anzi ricevono un vero salario di cittadinanza, modulato sul reddito reale delle famiglie. Pagheranno poi, quando entreranno effettivamente nel mondo del lavoro, in percentuale (progressiva, come ogni tassazione costituzionale, art. 53) sui loro guadagni. Le chance di partenza sono cosí rigorosamente eguali, egualitaria è la “restituzione” alle università, anzi addirittura “comunista”: da ciascuno secondo le sue possibilità. Oltretutto verrebbe soddisfatta – in termini quasi-comunisti! – un’altra pretestuosa rimostranza liberista, che i costi dell’istruzione superiore oggi gravano anche su coloro che non possono farvi accedere i propri figli, e che dunque le richieste degli studenti, onerose per lo Stato, sono “di classe”, a danno degli operai, dei disoccupati e di tutti i meno abbienti.

E l’efficienza verrebbe incentivata se ogni università potesse decidere quanto “costare” allo studente (in percentuale sui redditi futuri): un ateneo che presume di essere migliore chiederà piú di un altro, ma se insegnanti e laboratori non saranno all’altezza lo studente si dirigerà altrove (caro benpensante, anche in un sistema pubblico ed egualitario è possibile una concorrenza virtuosa). Il che comporterà una spinta a scegliere i docenti per merito, anziché per cordate accademiche, visto che ne va dei finanziamenti in arrivo. Ovvio che sarebbero necessari dei correttivi di redistribuzione di tali finanziamenti tra gli atenei e le facoltà, per “ponderare” il valore culturale rispetto al ritorno monetario, altrimenti nessun ateneo istituirà i corsi di etruscologia, infinitamente meno redditizi di quelli in management ma non meno irrinunciabili. Sono dettagli tecnici facilmente risolvibili, se c’è buonafede.

Il familismo e le cordate accademiche, che dominano oggi i concorsi in modo sempre piú pervasivo (un tempo le facoltà scientifiche ne erano quasi immuni, oggi lo “sfondamento” fa progressi anche qui), sarebbe disincentivato ma non certo estirpato. Ma altri contro-veleni possono essere somministrati: una prima selezione di “ideonei” – tra i quali le facoltà potrebbero poi scegliere – nelle cui commissioni di esame siano presenti in modo decisivo studiosi stranieri. E il sorteggio non ripetibile dei commissari italiani, e in un numero molto superiore ai candidati da selezionare, in modo che gli “scambi di figurine” finiscano a repentaglio.

Visto però che ormai l’inquinamento della selezione per demerito ha fatto delle baronie accademiche l’impero dei mediocri (ovvie le eccezioni, ma l’egemonia sul sistema è quella), a essere sottoposti a giudizio non dovrebbero essere solo gli attuali ricercatori e precari, ma anche i cattedratici. Come saranno possibili concorsi meritocratici, se a decidere i futuri meritevoli saranno gli attuali immeritevoli?

In un quadro di misure meritocratico-egualitarie come quelle abbozzate (le cose da proporre sarebbero ovviamente molte di piú), diventerebbe ragionevole l’abolizione del valore legale della laurea. Il valore di essa sarebbe tutta affidata al prestigio dell’ateneo, della facoltà, addirittura del “vintage” in cui è stata conseguita.

La realtà è che ai nostri benpensanti una università pubblica, meritocraticamente eguale, che rompa la riproduzione classista delle élite e del mercato del lavoro, fa paura. Studenti, non mollate.

Il Fatto Quotidiano, 8 dicembre 2010


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