Il gatto nero della Gelmini
NEGLI ALTRI Paesi europei, la media dei corsi di laurea è la metà. Tra i corsi di laurea attivati nel corso degli ultimi anni figurano: Scienze dell’allevamento e del benessere del cane e del gatto, Scienza e tecnologia del packaging, Scienze della mediazione linguistica per traduttori dialoghisti cinetelevisivi. Le materie insegnate nelle università italiane sono circa 170.000, contro una media europea di 90.000. Nessun ateneo italiano è entrato nella graduatoria delle migliori 150 università del mondo stilata dal Times. La prima università italiana è Bologna, al 192esimo posto. Negli ultimi 7 anni sono stati banditi concorsi per 13.232 posti da associato ma i promossi sono stati 26.000. Un impressionante elenco di peli neri dopo la cui lettura chi non è addentro al mondo dell’università si sarà nettamente convinto della bontà della riforma. Purtroppo le informazioni riportate sono quasi tutte irrilevanti mentre quelle indispensabili per capire qualcosa del settore sono assenti. I 13 mila concorsi citati hanno portato a 26 mila abilitazioni semplicemente perché la legge, che dovrebbe essere nota al Miur, prevede che ogni concorso abiliti due candidati; se non piaceva bastava ridurre il parametro a uno. È inoltre prevedibile che nessun ateneo pubblico figuri al top delle classifiche internazionali: come i ristoranti di una catena popolare e a basso prezzo gli atenei pubblici sono standardizzati, sono regolati da identico ordinamento e non sono posti in concorrenza tra di loro. Siamo in sostanza dei Mc Gelmini’s, per di piú con sempre meno carne da mettere negli hamburger; si è forse mai visto un Mc Donald’s in cima alle guide Michelin? Piú strano, invece, che non vi figurino atenei privati storici i quali non soffrono dei limiti organizzativi, dei vincoli normativi e della scarsità di risorse di quelli pubblici.
SIAMO INOLTRE sicuri che l’attivazione di corsi di studio sull’allevamento del cane e del gatto o sul packaging sia di per sé uno spreco? Questi corsi hanno o non hanno studenti? E se li hanno trovano poi lavoro oppure no? Questo il Miur non ce lo dice e forse neppure lo sa. Le tematiche del packaging, ad esempio, sono rilevanti se solo si considera quanto pesino gli imballaggi nei rifiuti e il loro contributo all’inquinamento. Per quanto riguarda l’incremento delle sedi universitarie, delle sedi decentrate, quello dei corsi di laurea e degli insegnamenti erogati, la domanda chiave è la seguente: tutte queste cose hanno fatto aumentare il costo medio per studente a carico della finanza pubblica oppure no? Perché se non lo hanno aumentato non si comprende perché dobbiamo per forza considerarle uno spreco e occuparcene. Alcuni numeri del Miur sembrano inoltre campati per aria. Gli Atenei pubblici sono 61, non 95. Davvero vi sono 327 facoltà (pubbliche) in Italia con meno di 15 iscritti, in media oltre cinque micro facoltà per ateneo? Chi le ha viste? Aspettiamo che il Miur ne pubblichi l’elenco. “Si sono aumentate cattedre e posti... aumentando la spesa in maniera incontrollata”. Sí, ma incontrollata quanto? E l’aumento dei laureati negli ultimi dieci anni lo vogliamo considerare oppure no? Quanto costa oggi un anno di formazione di uno studente universitario negli atenei pubblici italiani? E in quelli privati? Quanto costa un laureato oggi? E quanto costava dieci anni fa? Quanto costa nei paesi Ocse? Questo vorremmo sapere, dato che si tratta delle informazioni chiave per capire se il gatto è prevalentemente nero o prevalentemente bianco. Ma gli organi di stampa, neppure i piú diffusi e autorevoli, non ce lo hanno sinora detto e nessuno di essi ha neppure osato domandarlo agli intrepidi promotori della riforma.
Ugo Arrigo è professore di Scienza delle Finanze alla Bicocca di Milano.