2S
in tre parti

Il sacco del Sud (2)

di Santo Prontera - da Mondoperaio 3/2010
mercoledì 28 luglio 2010
L’unit? leonina

Nel Mezzogiorno di allora queste premesse e promesse di industrializzazione rappresentavano gli aspetti moderni che, opportunamente coltivati e sviluppati, avrebbero potuto gradualmente prendere il sopravvento sugli aspetti di arretratezza. Si trattava, comunque, di un panorama industriale che prosperava al riparo di forti barriere protezionistiche. Non tenendo conto di ci? (per ragioni che qui non vengono approfondite), la politica economica dello Stato unitario, che non aveva autodifese territoriali a carattere federale, ma era emanazione "piemontese", spazz? via in poco tempo tutto quel panorama. "Il nuovo Regno - dice De Rosa - adott? infatti la tariffa doganale piemontese, di marca cavouriana, e dopo quella toscana, la pi? liberista tra quelle praticate negli ex Stati italiani" [1]. Tra parificazione al ribasso delle tariffe interne ed ulteriori ribassi concordati con Stati esteri, ben presto, ossia gi? nel 1863, "le tariffe napoletane subirono una riduzione di circa l’80%" [2]. Un’autentica cura da cavallo. Risultato: "Nessuno dei settori che avevano registrato segni di modernizzazione e di progresso sfugg? alla crisi" [3].

La "classe industriale" del Meridione espresse invano preoccupazioni e proposte. Non chiedeva di mantenere alte per l’eternit? le barriere doganali. "Sollecitava - nota De Rosa - solo la concessione di un ragionevole lasso di tempo per adattarsi alla nuova politica tariffaria. Il suo giornale, L’industria italiana, sostenne pi? volte che "le tariffe doganali voglion essere gradatamente ridotte; la concorrenza di estere nazioni ammessa solo a gradi a gradi’" [4]. Per dialogare, per?, c’? bisogno di un interlocutore disposto ad ascoltare. Si d? il caso che alcuni ministeri rispedirono al mittente le copie della rivista che gli editori si erano permessi di mandare. Gli industriali meridionali avevano di fronte un interlocutore chiuso in astrattismi ideologici (nel migliore dei casi). ? ben vero, infatti, che il liberismo era la teoria corrente nei paesi pi? sviluppati, ma corrispondeva agli interessi dei medesimi, i quali, in qualit? di pesci grossi, tutto avevano da guadagnare in un confronto squilibrato con pesci piccoli. Rosario Romeo ha affermato che quell’astratta ed estremistica politica commerciale ? stata indicata da pi? parti come "l’inizio della conquista economica del Sud e del regime quasi coloniale di subordinazione del Mezzogiorno al Settentrione d’Italia" [5]. La Giunta provvisoria di Commercio di Napoli, nominata dalle nuove autorit? unitarie, in una relazione del 12 giugno 1861, sollecitata dal Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio per conoscere le "condizioni economiche delle diverse province del Regno", levava forti lamentele circa la scarsa attenzione riservata dal Parlamento alle esigenze dell’apparato industriale meridionale: "Le industrie che oggi fioriscono in questa parte meridionale d’Italia non sono di piccola considerazione, anzi avuto rispetto alle condizioni infelici in cui sono stati questi popoli, pu? dirsi che il suo progresso industriale sia stato grande, come quello che non ? secondo a molti Stati d’Europa, e forse molti ne avanza [...] E per? non senza un forte rincrescimento noi della meridionale Italia abbiamo inteso dal seno del nostro Parlamento con leggerezza, e quasi disprezzo farsi nessuna ragione di queste industrie nostrali, anzi averle quasi in dispregio, come cosa vile e da poco". Nella stessa relazione si faceva notare che le industrie meridionali "non versa[vano] nella pi? favorevole condizione, anzi [erano] minacciate di rovina" per via del nuovo sistema di tariffe doganali "che [aveva] ap[erto] improvvisamente la barriera alla concorrenza straniera, senza aver curato quei provvedimenti opportuni per i quali solamente si [sarebbe] pot[uto] andare senza scossa da un sistema protettore a uno opposto" [6]. Come investito da uno tsunami, croll? questo primo modello economico del Mezzogiorno, il quale, perdendo il nucleo di una sua possibile trasformazione, rest? con tutti i problemi che successivamente la memoria collettiva ha raccolto.

Dopo il crollo di questo modello economico "industrialista", per il Sud fu giocoforza orientarsi verso un nuovo "modello". Fu cos? - dice De Rosa - che l’agricoltura "divent? l’attivit? principale del Mezzogiorno" [7]. Dapprima divenne grande produttore ed esportatore di cereali e poi, con l’Europa "progressivamente invasa dai grani americani venduti a prezzi del 30-40 % inferiori" [8], potenzi? le colture pregiate, come la vite, l’olivo, gli agrumi. Ma neanche per questo modello subordinante e di ripiego ci fu pace. "Questa crescita - scrive De Rosa- sub? -come ? noto - una drammatica interruzione dopo che fu approvata nel 1887 la tariffa protezionistica voluta da Crispi, su pressione degli interessi centro- settentrionali" [9]. L’industria, che era "ormai concentrata quasi completamente nelle tre regioni del Nord: Lombardia, Piemonte e Liguria" [10], per reggere la concorrenza estera sul mercato interno, chiese con insistenza (e poi, tra il 1877 e il 1878, ottenne) provvedimenti di protezione doganale, gli stessi che erano stati negati a quella del Sud prima che questa finisse nell’archivio dei ricordi. Le nuove tariffe doganali scatenarono la reazione della Francia e a farne le spese fu l’agricoltura meridionale, vittima delle ritorsioni dei cugini d’oltralpe. Infatti, per i mercati dei prodotti agricoli meridionali "il mercato francese, per rappresaglia, si chiuse alle esportazioni italiane", determinando una caduta dei "prezzi del vino e dell’olio" [11]. Conseguenza diretta di questa disastrosa crisi per l’economia meridionale fu la "crescente e consistente corrente migratoria verso il Nord e il Sud America" [12].

Nordici e sudici

Come mai il Mezzogiorno non riusciva a difendersi sul piano politico? Per via della becera classe dominante, cinicamente utilizzata dalle mene altrui. Scrive De Rosa: "Nel 1899 esplose lo scandalo della corruzione maturata in seno al Comune di Napoli, favorito in larga parte dalle mene degli interessi settentrionali" [13]. Quale fosse in buona parte il tenore della deputazione meridionale in Parlamento e a quali interessi rispondesse, lo disse, con profonda indignazione, Giustino Fortunato. Per lo studioso lucano il governo dell’Italia era "la gran macchina senza onore e senza pudore che fa[ceva] e disfa[ceva] - quaggi? - i deputati, avvocati per il maggior numero, o possidenti incolti e voraci; avvocati, che la deputazione fa[ceva] ricchi; possidenti, che la deputazione fa[ceva] onnipotenti [...] Il Settentrione capitalista e militarista fa i suoi affari, restando al timone dello Stato, grazie alla degradazione politica del Mezzogiorno" [14]. Mentre Nitti scriveva: "Nel 1860, soprattutto dopo il 1876, l’Italia meridionale ? stata considerata come il paese destinato a formare le maggioranze ministeriali. I prefetti quasi non hanno altra funzione che di fare le elezioni. Un ex ministro raccontava alla Camera avergli un prefetto dichiarato essere arbitro delle elezioni, poich? poteva mandare tutti i sindaci della sua provincia in carcere. Si ? speculato da ogni partito sull’ignoranza e sul dolore. Dove bisognava tagliare il male, si ? incrudito. Intere regioni sono state abbandonate a clientele infami" [15]. Dal canto suo Salvemini, spiccio e sanguigno come sempre, tuonava: "Che i settentrionali sfruttino i meridionali, non c’? dubbio, ma che cosa fanno i meridionali per non essere sfruttati? I "nordici’ trovano proprio fra i "sudici’ i peggiori strumenti del loro sfruttamento economico e politico" [16]. Ancora oggi, del resto, tanti industriali del Nord fanno i propri affari entrando in combutta con le mafie del Sud per lo smaltimento di rifiuti tossici.

De Rosa ha anche scritto una monumentale Storia del Banco di Napoli [17], nella quale si descrivono le singolari vicende dell’istituto bancario partenopeo in rapporto alle altre banche centro- settentrionali. Dopo essere stato ostacolato dal regime borbonico quanto a modernizzazione e strategie di sviluppo, questo istituto bancario non fu meglio trattato dallo Stato unitario. Da quelle pagine emerge con chiarezza, anche per i non addetti ai lavori, quanto il governo sia stato super partes e quanto sia stato giocatore di una squadra in campo. All’atto dell’Unit? le banche pi? importanti erano due: la Nazionale, con sede al Nord, e il Banco di Napoli. Quest’ultimo, per?, disponeva di una maggiore riserva aurea. Dopo l’Unit?, alla Nazionale fu subito permesso di aprire filiali nel Sud, facendo cos? concorrenza al Banco di Napoli, ma a quest’ultimo il permesso di aprire filiali al Nord non arriv? prima della fine del 1865. Quali furono le conseguenze? Le filiali della Nazionale aperte al Sud rastrellavano cartamoneta emessa dal Banco e poi, presentandosi agli sportelli del medesimo, chiedevano il cambio in oro, dato che allora era vigente il sistema della convertibilit?. In tal modo si operava un vero trapasso di oro dal Banco alla Nazionale. Il risultato non era di poco conto. Le banche, infatti, potevano emettere tre lire di carta per ogni lira di oro posseduto. Ci? significa che, con il favoritismo ottenuto dalla Nazionale, si trasferivano dal Sud al Nord notevoli capacit? di credito, a tutto vantaggio del sistema economico del Centro-Nord. Dopo il 1865, per?, al Banco di Napoli, con le sue filiali al Nord, fu possibile solo in parte sviluppare la propria attivit? e la propria azione di difesa nei confronti della Nazionale, perch? l’istituto di emissione napoletano fu boicottato. E non solo dalle banche del Centro-Nord. A Roma, ebbe a dire un alto funzionario del Banco di Napoli, il Cuciniello, la carta emessa dall’istituto partenopeo "non [veniva] ricevuta dalle Amministrazioni dello Stato". Un altro dato interessante, tra i tanti, si riferisce all’emissione di carta- moneta, vincolata al rapporto 1 a 3 rispetto alle riserve auree possedute. Il Banco di Napoli, sottoposto all’azione di drenaggio politicamente coperta, manteneva prudentemente la sua emissione al di sotto delle effettive possibilit?; la Nazionale, viceversa, usava sconfinare -evidentemente per motivi opposti- oltre le possibilit? consentite dalla legge.

? opportuno considerare alcuni dati significativi. Con l’operazione "drenaggio" effettuata dalla Nazionale le riserve auree del Banco di Napoli, che nel 1863 ammontavano a 78 milioni, si ridussero, alla vigilia del corso forzoso (sospensione della convertibilit? cartamoneta/oro) a 43 milioni. La differenza fu acquisita dalla Nazionale, la quale, per?, dal 1860 al 1866, vide aumentare le sue riserve auree di soli 6 milioni. Dove finiva l’oro? La Nazionale sosteneva banche pi? piccole, di credito mobiliare, impegnate a finanziare un sistema di industrie in crisi. Una nota a margine: al Sud fu impedita la costituzione di banche mobiliari, per operare allo stesso modo che al Nord. In sostanza, il sostegno alle industrie settentrionali veniva assicurato con il trasferimento di oro dal Sud al Nord e con lo strozzamento del credito al sistema industriale meridionale.

Un altro dato significativo ? collegato alla legge sul corso forzoso, approvata il 1? maggio 1866. Con tale provvedimento si rese inconvertibile (non si poteva richiedere la conversione di cartamoneta con il corrispondente valore in oro) solo la moneta della Nazionale. Quella del Banco di Napoli restava convertibile come prima e come prima le riserve auree del Banco restavano nel mirino della Nazionale. Nel 1868 la relazione di un’apposita commissione parlamentare stabilir? che non c’era stato alcun reale bisogno del corso forzoso e che tale provvedimento legislativo era stato fatto (al di l? del pretesto ufficiale: le necessit? collegate alla guerra del 1866 contro l’Austria - ma il corso forzoso dur? fino al 1883, ben oltre la necessit? -) per evitare il fallimento della Nazionale e delle banche ad essa collegate. In Parlamento il ministro Scialoja, rispondendo all’on. Avitabile, disse che il sacrificio del Banco di Napoli era "una volgare verit?", ma nel contempo quel provvedimento era stata una triste necessit? [18].

Chi ha dato e chi ha avuto

Non si vuol fare a tutti i costi i puntigliosi, correndo anche il rischio di dare man forte a rivendicazionismi di bassa lega, ma alcune cose importanti, in periodo di leghismo dilagante e circondato da tante giustificazioni e simpatie esterne, vanno necessariamente rammentate. Subito dopo l’Unit? c’? indubbiamente stato un immediato e massiccio trasferimento di richezza dal Sud al Nord. Tra i tanti, De Rosa ricorda che il Piemonte cavouriano aveva appesantito enormemente il deficit di bilancio per modernizzare lo Stato (ma non solo per questo) attraverso infrastrutture di vario genere. Al contrario ai Borbone stava a cuore il pareggio di bilancio nell’ambito di una politica generale che certamente non era propulsiva e lungimirante. Faceva bene Cavour (ma non tutte le spese sabaude erano virtuose; tante erano improprie e persino scandalose!) e facevano male i Borbone. Tuttavia, l’eccessiva disinvoltura dell’aumento del deficit di bilancio aveva portato lo Stato piemontese in uno "stato di bancarotta", che fu evitato con l’Unit?. Infatti, dice De Rosa, "il Regno sabaudo non ebbe difficolt? a scaricare poi sul Napoletano il suo debito pubblico che, da solo, superava l’insieme di tutti quelli degli altri ex Stati italiani; e ad appropriarsi della riserva d’argento [del Regno di Napoli] che garantiva il valore del ducato, imponendo al quale l’equivalente di 4,25 lire gli port? via quasi il 100% del suo potere d’acquisto" [19].

Dal canto suo, Salvemini aveva gi? fatto notare che "il Napoletano e la Sicilia non avevano debiti, quando entrarono a far parte dell’Italia una: e la unit? del bilancio nazionale ebbe l’effetto di obbligare i meridionali a pagare gl’interessi dei debiti fatti dai settentrionali prima dell’unit? e fatti quasi tutti per iscopi che coll’unit? nulla avevano a che fare" [20]. Lo stesso Salvemini rammentava ancora che "il Napoletano e la Sicilia erano ricchissimi di beni ecclesiastici [...]; la confisca di tutti quei beni a vantaggio delle finanze dell’Italia una, sottrasse all’Italia meridionale un’enorme quantit? di capitale sotto forma di pagamenti immediati all’atto della compera o di pagamenti annuali" [21]. Sul medesimo argomento De Rosa nota che vi fu un "drenaggio di capitali dal Sud che il governo unitario si assicur? attraverso la vendita dei beni demaniali ed ecclesiastici. Tramite una semplice voltura di nomi nei documenti catastali, mettendo al posto di quello dell’ente pubblico o ecclesiastico il nome di un cittadino napoletano, costui si privava delle sue liquidit? o si indebitava" [22]. A fronte di questi flussi di denaro e per quelli derivanti da una tassazione squilibrata a danno del Mezzogiorno, non vi fu un adeguato ritorno al Sud. Quella ricchezza, com’? ampiamente noto, fu spesa prevalentemente per opere realizzate nel Nord. Se l’unit?, tanto per far notare un dato di una certa importanza, si fosse realizzata sotto gli auspici dell’idea federalista del lombardo Carlo Cattaneo, le cose sarebbero andate diversamente.

De Rosa ha inteso concludere cos? il suo saggio: "All’ansia del Piemonte di uscire rapidamente dallo stato di bancarotta nel quale si era immerso e all’impazienza di tutta l’Italia settentrionale di assicurasi subito un mercato addizionale per il collocamento dei suoi prodotti, il Sud non seppe opporre le aspettative e gli ideali dei suoi patrioti, che pure avevano sofferto il carcere, l’esilio ed anche la morte per la causa nazionale. Dimenticando che senza la fervida partecipazione della sua popolazione Garibaldi non avrebbe compiuto cos? facilmente la sua impresa, il Sud si adatt? all’idea di essere conquistato e annesso alla nuova unit? politica, assumendosi cos? anche la responsabilit? di non aver contribuito a creare un’effettiva ed efficiente patria italiana" I [23].

Chi gest? l’Unit? non fu all’altezza del sentire e del progetto dei migliori tra coloro che l’avevano voluta e realizzata. L’Unit? andava fatta; ? stato un bene farla. Ma ? stata fatta male. Malissimo. Dopo l’impeto poetico (dovuto alla "generazione lirica e tragica", ossia a quella parte costituita da limpide figure, degne della riconoscenza dei posteri), non poteva che arrivare la prosa, ma ? stata una cattiva prosa, in linea con l’ottica mentale di chi aveva guardato all’Unit? solo per calcolo. Dobbiamo convivere per sempre con un’Unit? fatta male? Dobbiamo costantemente correre il rischio di una disastrosa rottura o comunque sentire ad ogni momento che bisogna farla finita con l’Unit?? ? giusto dire che va corretta. E per farlo ? necessario risolvere la questione del Sud.

Perduta la possibilit? di beneficiare di una profonda trasformazione sociale grazie all’egemonia di una moderna cultura tramite lo sviluppo industriale, al Mezzogiorno era rimasta, come forza egemone, la sua zavorra, manovrata da burattinai settentrionali contro gli interessi dello stesso Mezzogiorno, che in definitiva erano interessi della nazione. Sono arcinote, a tal proposito, le feroci invettive di Salvemini contro il rapporto da burattini a burattinai tra determinate forze del Sud con altre del Nord (nel suo linguaggio: tra le mafie del Sud e le mafie del Nord). Significativamente faceva notare che la "spedizione garibaldina fu per la maggioranza dei benpensanti settentrionali un atto di conquista vera e propria" [24]; ma, da spirito unitario e responsabile, ben chiariva, ovviamente, che il Sud e il Nord non erano e non sono solo questo.

La leggenda fiscale

Il Mezzogiorno, comunque, anche allora veniva incolpato di tutto. Una leggenda corrente all’epoca riguardava il livello della tassazione. Il Sud, si diceva, paga poche tasse e vive alle spalle del Nord. Si diceva cos?, ma nessuno aveva chiesto il parere a carta e lapis (non c’era ancora la calcolatrice). Questo parere decise di chiederlo Nitti. Ed appur?, come anche altri, che le cose stavano alla rovescia. Il Sud, in proporzione alla sua ricchezza, pagava pi? del Nord, non meno. La parte povera del paese era fiscalmente gravata pi? della parte ricca ed in pi? doveva sopportare la nomea dello scroccone di casa. Fortunato riconosceva non esserci pi? "dubbio, dopo le sicure analisi e i minuti raffronti della grande indagine statistica, compiuta dal Nitti: il Mezzogiorno, comparativamente alla sua ricchezza, sopporta un onere tributario assai maggiore di quello che grava l’alta e la media Italia" [25]. La sperequazione venne documentata e ribadita anche da Salvemini: "l’Alta Italia -diceva lo storico pugliese- possiede il 48% della ricchezza totale e paga meno del 40% del carico tributario; l’Italia media possiede il 25 % e paga il 28%; l’Italia meridionale possiede il 27% e paga il 32%. Nel dare, il Meridione ? all’avanguardia, nel ricevere ? alla retroguardia" [26]. Eppure nel discorso comune non si trova traccia di questi dati. Esiste, viceversa, un generico pregiudizio di tipo opposto.

Agli storici ? noto che dopo l’Unit? la maggior parte delle tasse del Sud faceva un viaggio di sola andata, ossia non ritornava al Sud sotto forma di investimenti pubblici: lo Stato spendeva mediamente 50 lire per ogni cittadino del Nord e 15 lire per ognuno del Sud. Nel 1900 Nitti ebbe a scrivere: "Quando i capitali si sono raggruppati al Nord, ? stato possibile tentare la trasformazione industriale. Il movimento protezionista ha fatto il resto e due terzi d’Italia hanno per dieci anni almeno funzionato come mercato di consumo. Ora l’industria si ? formata e la Lombardia, la Liguria e il Piemonte potranno anche, fra breve, non ricordare le ragioni prime della loro presente prosperit? [...] Il Nord d’Italia ha gi? dimenticato: ha peccato anche di orgoglio. I miliardi che il Sud ha dato, non ricorda pi?: i sacrifici non vede" [27].

Fortunato era consapevole della necessit? di non porre veli sui dati reali e nel contempo era giustamente interessato a bocciare le posizioni faziosamente rivendicazioniste, perch? fiutava i pericoli di una polemica condotta fino in fondo. Pertanto, allo scopo di difendere una prospettiva unitaria in condizioni di chiaro ed equilibrato rapporto fra le varie parti del paese, aveva opportunamente argomentato sul comune giovamento - sia pur sbilanciato a scapito del Sud - tratto tramite l’Unit? da parte dell’Italia intera.

Dalle pagine di storia patria risulta chiaro che il paese ha conseguito obiettivi di fondo ed ? riuscito a crescere notevolmente, sollevandosi dalla penosa condizione in cui era precipitato. ? riuscito a crescere grazie ad un insieme di fattori, tra cui una plurisecolare tradizione culturale, l’opera di una "minoranza lirica e tragica" che ha fatto il Risorgimento (pur in presenza di un vario e parallelo materiale umano su cui conviene stendere un velo pietoso), l’azione di minoranze di alto sentire che hanno riconosciuto, assecondato e difeso l’identit? costruita dalla storia e curato gli interessi generali.

Sono stati i membri di queste minoranze a farsi costruttori e pedagoghi della nazione. Il panorama odierno non ci dice nulla di nuovo. Oggi, come ieri, le prospettive del paese sono legate alla generosit? ed alla tenacia di minoranze attive e lungimiranti. ? auspicabile che le minoranze di oggi, che lottano per grandi o piccoli obiettivi politici e civili nelle varie realt?, siano consapevoli dell’importanza della loro azione e della necessit? di perseverare.

Andiamo a delineare un quadro di sintesi per capire meglio. La questione meridionale, pur avendo alcuni presupposti precedenti l’unificazione, matur? in seno allo Stato unitario come questione sociale legata al rapporto non felice tra il nuovo Stato e il Sud. ? un aspetto che peraltro emerge con chiarezza nelle Lettere meridionali di Pasquale Villari e nelle successive indagini sul Mezzogiorno. La classe dei latifondisti, costituita dalla borghesia agraria e dagli ex baroni, in genere avida e gretta, e storica nemica delle masse contadine, era uscita rafforzata dalle vicende unitarie. Aveva accresciuto il proprio potere economico, catturando quote demaniali destinate ai contadini [28], ed aveva inoltre acquisito nelle proprie mani il potere politico che precedentemente apparteneva in esclusiva alla monarchia assoluta. Le masse contadine, in quella situazione, non vedevano spiragli che si aprivano in rapporto alla loro condizione sociale, bens? spiragli che si chiudevano. Per certi aspetti si venne a determinare una situazione analoga a quella emersa in Francia dopo la Rivoluzione. Questo enorme evento si era concluso con il dominio economico e politico della borghesia, ma il quarto stato aveva di che lamentarsi. Oltralpe questa situazione sfoci? in una protesta che prese le forme del socialismo, che peraltro era per tanta parte una produzione intellettuale per il quarto stato e non dello stesso. Date le specifiche condizioni storiche in cui vivevano le classi subalterne meridionali, la delusione dei contadini nel Mezzogiorno -nell’immediato e nel lungo periodo- si manifest? (anche) come alimento del brigantaggio e come massiccio esodo migratorio.

[segue]

da Mondoperaio 3/2010 - pagg. 49-64 [54-60]

Nella terza parte: Fatti e pregiudizi. La questione settentrionale. Dove va la spesa pubblica.

[1L. De Rosa, La Provincia subordinata, Laterza, 2004, pag. 9.

[2Ibidem, pag. 9.

[3Ibidem, pag. 10.

[4Ibidem, pag. 12.

[5Ibidem, pag. 13.

[6L. De Matteo, "Noi della meridionale Italia", Edizioni Scientifiche Italiane, Roma-Napoli, 2002, pagg. 6, 11-12.

[7De Rosa, cit., pag. 15.

[8Ibidem, pag. 17.

[9Ibidem, pag. 21.

[10Ibidem, pag. 21.

[11Ibidem, pag. 27.

[12Ibidem, pag. 29.

[13Ibidem, pag. 30.

[14Ibidem, pagg. 30,31.

[15Nitti, cit., pag. 453.

[16Salvemini, cit., pag. 643.

[17L. De Rosa, Il Banco di Napoli nella vita economica nazionale, Napoli, 1961; E. M. Capecelatro-A. Carlo, Contro la "questione meridionale", Savelli, 1973.

[18De Rosa, cit., pag. 135.

[19Ibidem, pag. 135.

[20Salvemini, cit., pagg. 71-72.

[21Ibidem, pag. 72.

[22De Rosa, cit., pag. 135.

[23bidem, pagg. 135-136.

[24Salvemini,cit., pag. 71.

[25Fortunato, cit., pag. 59.

[26Salvemini, cit., pag. 72.

[27Nitti, cit., pag. 450.

[28De Rosa, cit., pagg. 16, 17; G. Fortunato, Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, Vallecchi, 1973, pagg. 63-65.


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