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IL disastro ambientale nel Golfo del Messico

Marea nerissima

da L’Espresso del 2 luglio 2010 - di Naomi Klein
domenica 18 luglio 2010

Mentre in Basilicata si trivella a tutto spiano (in Val d?Agri ci sono 55 pozzi in produzione) nel Golfo del Messico ci si rende conto che le tecnologie utilizzate non erano affatto sicure e ci si prepara (se mai possibile) ad uno dei peggiori disastri ambientali mai avvenuto. La BP era cos? sicura che niente potesse andare storto che non aveva nemmeno un piano di emergenza, infatti nel progetto originario di esplorazione presentato al governo federale per l’infausto pozzo Deepwater Horizon l’espressione ’scarsi rischi’ vi compare ben cinque volte. In Val d?Agri per? non siamo in mare aperto e le estrazioni vengono effettuate in una zona ricca di sorgenti, boschi, instabile per frane e soprattutto abitata. Oltre il 70 per cento del territorio lucano ? gravato da permessi di ricerca e concessioni. ? possibile immaginare che in realt? neanche in questo caso i rischi siano stati valutati correttamente? Enrico Mattei nel 1958 considerava un insulto il 15% di royalties che le sette sorelle versavano ai paesi produttori. La Basilicata incassa molto meno del 15 per cento e, come se non bastasse, per ammissione dello stesso Presidente della Giunta regionale, i monitoraggi ambientali e gli studi epidemiologici fino ad oggi sono stati decisamente carenti, volendo usare un eufemismo. E la Basilicata ? in controtendenza rispetto all’andamento nazionale circa l’incidenza dei tumori (mentre in Lombardia e Puglia, regioni certo pi? industrializzate per es. diminuiscono, in Basilicata continuano ad aumentare). Per maggiori informazioni si veda La Basilicata avvelenata dalla Malapolitica.

"Trivellare senza preoccupazioni ? una prassi che rientra a tutti gli effetti nelle consuetudini politiche del partito repubblicano dal maggio 2008", dice l’articolo di Klein, e continua: "il principio di precauzione sostiene che quando un’attivit? presenta il rischio di poter arrecare danni all’ambiente o alla salute umana, si deve procedere con grande attenzione, come se l’insuccesso fosse possibile, addirittura probabile." Non credo che qui in Basilicata le cose vadano in maniera molto diversa.

Tutti i convenuti, accorsi per partecipare al town hall meeting, erano stati ripetutamente informati e pregati di dar prova di civilt? nei confronti dei rappresentanti della BP e del governo federale. Dopo tutto, quel marted? sera, quei gentili signori erano riusciti a trovare del tempo nelle loro agende fitte di impegni per recarsi fin l?, nella palestra del liceo di Plaquemines Parish, in Louisiana, una delle molte comunit? lungo la costa dove la letale sostanza marrone sta penetrando nelle paludi, in quello che ? ormai definito il pi? grande disastro ambientale di tutta la storia degli Stati Uniti. ’Rivolgetevi agli altri come vorreste che si rivolgessero a voi’ ha invitato ancora una volta il moderatore della serata, prima di dare il via libera alle domande.
Per un po’ la folla - composta in gran parte da famiglie di pescatori - ha dato prova di un’ammirevole moderazione. Ha ascoltato con grande pazienza Larry Thomas - il gioviale incaricato alle relazioni con il pubblico della BP - spiegare in che modo egli sia impegnato a ’perfezionare’ le modalit? con le quali sta esaminando le loro richieste di indennizzo per mancato guadagno, per poi passare il microfono a un subappaltatore molto meno amichevole che ha fornito altri dettagli. Ha ascoltato i ragguagli sull’azione legale intentata dall’Agenzia per la Protezione dell’ambiente, e le spiegazioni in base alle quali - contrariamente a quanto aveva letto in merito alla mancanza di accertamenti e al fatto che in Gran Bretagna tali sostanze sono messe al bando - i solventi chimici spruzzati sul greggio per decomporlo sono perfettamente sicuri. Veramente!
Poi, quando per la terza volta ? salito sul podio qualcun altro - Ed Stanton, capitano della Guardia Costiera - pronto a rassicurare che ’avrebbero fatto s? che la BP ripulisse tutto’, la pazienza si ? esaurita.
’Mettetelo per iscritto!’ ha gridato qualcuno. A quel punto l’aria condizionata si era ormai spenta da sola. Le ghiacciaie piene di Budweiser erano vuote. Un pescatore di gamberi di nome Matt O’Brien si ? avvicinato al microfono e con le mani sui fianchi ha detto: ’Non ci serve pi? sentirci dire queste cose’. Nulla di quanto ? stato assicurato al pubblico poteva pi? avere alcun interesse perch?, ha spiegato O’Brien, ’noi non ci fidiamo di voi!’. E dal pubblico si sono levate alte grida, quasi che gli Oilers (nome infausto per la squadra di football locale) avessero appena segnato un punto.
Se non altro, l’aver messo le carte in tavola una volta per tutte ? stato molto liberatorio. Per settimane i residenti erano stati sottoposti a un fuoco di fila ininterrotto, fatto di discorsini rassicuranti e bizzarre promesse provenienti da Washington, Houston e Londra. Ogni volta che avevano acceso il televisore, si erano trovati davanti Tony Hayward, presidente della BP, che dava solennemente la sua parola che ’ce l’avrebbe fatta’. In alternativa, compariva il presidente Barack Obama che esprimeva la sua fiducia incondizionata sul fatto che la sua Amministrazione avrebbe ’lasciato la costa del Golfo in condizioni migliori di quanto fosse stata in passato’, e assicurava e ’garantiva’ che ’sarebbe tornata a essere addirittura meglio di prima della crisi’.
Tutte belle parole. Per quelle persone, i cui mezzi di sussistenza sono inestricabilmente legati al delicato equilibrio chimico delle paludi, quelle promesse suonavano del tutto grottesche e vuote in modo quasi doloroso. Una volta che il greggio ricopre alla radice le piante erbacee delle paludi, come sta gi? iniziando a fare a poche miglia da qui, nessuna macchina miracolosa, nessun intruglio sintetico potr? pi? toglierlo di mezzo. Al largo, in acque aperte, il greggio in superficie si pu? anche aspirare. Sulle spiagge di sabbia lo si pu? rastrellare. Ma una palude invasa dal greggio resta cos? com’?, e cessa lentamente di vivere. Le larve di innumerevoli specie animali per le quali le paludi sono l’habitat naturale e il terreno di riproduzione - gamberi, granchi, ostriche, pesciolini - ne restano intossicate.
Sta gi? accadendo, del resto. Quello stesso giorno, di mattina presto, avevo attraversato le paludi circostanti su un’imbarcazione a chiglia piatta. I pesci spiccavano salti fuori dall’acqua, circondati dai bianchi tramezzi galleggianti di spesso cotone e di struttura retiforme che la BP sta utilizzando per assorbire il petrolio. Il perimetro dell’acqua contaminata pareva stringersi come un cappio intorno a quei pesci. Poco lontano, un merlo dalle ali rosse se ne stava appollaiato sullo stelo di una canna delle paludi imbevuto di greggio. La morte stava salendo poco alla volta verso la sommit? della canna: era come se quel piccolo uccello in realt? fosse appollaiato su un candelotto acceso di dinamite.
E poi c’? la vegetazione, le canne di palude, o Roseau, come sono denominati gli alti steli affilati: se il greggio penetrer? abbastanza a fondo negli acquitrini, non falcidier? soltanto ci? che cresce sul terreno, ma anche le radici. E sono proprio queste ultime, le radici, a formare e tenere assieme la palude, evitando che la terra verde brillante sprofondi nel delta del fiume Mississippi e nel Golfo del Messico. Di conseguenza, posti come Plaquemines Parish non stanno soltanto per perdere i loro allevamenti ittici, ma anche buona parte della barriera vera e propria che smorza l’impatto e l’intensit? delle forti tempeste di queste parti, simili all’uragano Katrina. E ci? equivale a dire perdere tutto.
Quanto tempo occorrer? prima che un ecosistema cos? devastato possa essere ’ripristinato e riportato nuovamente alla sua integrit?’, come il segretario degli Interni di Obama ha detto, prendendosi questo specifico impegno? Non ? affatto chiaro in che modo una cosa simile sia anche solo lontanamente possibile, quanto meno in un arco di tempo che le nostre menti possano circoscrivere facilmente. I vivai ittici in Alaska si devono ancora riprendere del tutto dalle conseguenze della perdita di greggio della Exxon Valdez avvenuta nel 1989, e alcune specie di pesci non sono mai ricomparse. Gli scienziati del governo hanno calcolato che ormai nelle acque del Golfo ogni quattro giorni entri il corrispettivo dell’intera onda contaminata della Valdez. Prognosi peggiore ? quella che emerge dall’inquinamento avvenuto durante la Guerra del Golfo del 1991, quando nel Golfo Persico si riversarono circa undici milioni di barili di petrolio, la pi? grande marea nera mai verificata al mondo. In realt?, il paragone non ? del tutto calzante, in quanto allora si procedette a operazioni di pulizia inadeguate, ma secondo uno studio condotto a dodici anni dal disastro circa il 90 per cento delle paludi saline colpite e delle mangrovie era ancora deteriorato.
Una cosa sappiamo per certo: lungi dall’essere ’riportata alla sua integrit?’, la costa del Golfo del Messico molto verosimilmente ne risulter? depauperata. Le sue ricche acque, i suoi cieli cos? gremiti di uccelli saranno meno pieni di vita di quanto siano oggi. Persino lo spazio vero e proprio occupato da molte comunit? sulla carta geografica si assottiglier? a causa dell’erosione del terreno. E la leggendaria cultura della costa languir? e si inaridir?. Perch?, le famiglie di pescatori su e gi? lungo il Golfo non raccolgono soltanto cibo: costituiscono un’intricata rete di cui fanno parte tradizioni familiari, cucina, musica, arte e lingue in via di scomparsa, proprio come le radici delle canne che tengono insieme il terreno nelle paludi. Senza pesca, queste culture insostituibili perderanno le loro radici. (Dal canto suo, BP ? perfettamente consapevole dei limiti della ripresa. Il piano di intervento per l’onda di greggio nella regione del Golfo del Messico elaborato dalla compagnia petrolifera specifica nelle istruzioni ai propri addetti di non ’promettere che le propriet?, l’habitat o qualsiasi altra cosa ritorneranno alla normalit?’).
Se l’uragano Katrina ha squarciato il velo che copriva la realt? del razzismo in America, il disastro della BP ha spazzato via quello che occultava qualcosa di pi? nascosto ancora: quanto sia scarso il controllo che perfino le persone di maggiore ingegno tra noi hanno sulle terrificanti forze naturali strettamente interconnesse tra loro e con le quali noi interferiamo cos? fortuitamente. La BP non riesce a tappare il buco che ha aperto nella Terra. Obama non riesce a ordinare ai pellicani bruni di non estinguersi (a prescindere dal fondoschiena che prende a calci). E nessuna somma di denaro - n? i 20 miliardi di dollari promessi di recente da BP, n? 100 miliardi di dollari - riuscir? a rimpiazzare una cultura che ? stata privata delle proprie radici. E mentre i nostri politici e i capi delle grandi multinazionali devono ancora venire a patti con queste umili verit?, la gente la cui aria, la cui acqua, i cui mezzi di sussistenza sono stati contaminati sta perdendo rapidamente le proprie illusioni.
’Sta morendo tutto’, dice una donna quando il town hall meeting volge ormai al termine. ’Come ? possibile, in tutta onest?, affermare che il nostro Golfo ha capacit? di recupero e potr? tornare come prima? Nessuno di voi qui presenti ha la minima idea di quello che accadr? al nostro Golfo... Voi ve ne state l?, sul palco, con le vostre facce impassibili, e vi comportate come se sapeste quello che in realt? non sapete’.
Questa crisi della costa del Golfo tocca molti aspetti: la corruzione, la deregulation, la dipendenza dai combustibili fossili. Ma in fondo concerne anche altro: la presunzione - lancinante in modo quasi doloroso - di avere una comprensione e un controllo tali sulla Natura da essere in grado di manipolarla e di ricrearla con rischi minimi per i sistemi naturali che ci tengono in vita.

Rischi non calcolati
Invece, come ha rivelato il disastro della BP, la Natura ? sempre pi? imprevedibile di quanto i modelli matematici pi? raffinati e i modelli geologici pi? all’avanguardia presumano. Durante la deposizione davanti al Congresso di gioved? scorso, Hayward ha detto: ’Per risolvere la crisi sono stati convocati i pi? illustri esperti e le menti migliori’, e ’a eccezione forse del programma spaziale degli anni Sessanta, ? difficile ricordare che in un unico posto sia stata convocata e messa insieme in tempo di pace una squadra altrettanto grande e altrettanto efficiente dal punto di vista tecnico’. Eppure, di fronte a quello che il geologo Jill Schneiderman ha chiamato il ’pozzo di Pandora’, essi si comportano come se sapessero quello che in realt? non sanno.
Nella storia umana, il concetto che la Natura sia qualcosa che l’uomo pu? riprogettare a proprio piacere ? relativamente recente. Nel suo innovativo libro del 1980, intitolato ’The Death of Nature’, la specialista di storia ambientale Carolyn Merchant ricordava che fino al Seicento la Terra ? stata considerata qualcosa di vivo, e che spesso era raffigurata come una madre. Gli europei - come i popoli indigeni di tutto il mondo - credevano che il pianeta fosse un organismo vivente, pieno di poteri vivificanti, ma anche di risentiti umori. Per questo motivo, esistevano forti tab? contro qualsiasi azione fosse in grado di deformare e dissacrare ’la madre’, compresa l’escavazione di miniere.
L’allegoria cambi? radicalmente in seguito alla scoperta di alcuni misteri della Natura durante la rivoluzione scientifica del Seicento. Gli elementi della Natura - raffigurata da quel momento in poi come una sorta di macchina, priva di mistero o di essenza divina - potevano dunque essere delimitati, estratti, ricostruiti impunemente. Essa talora appariva ancora con le fattezze di una donna, ma di una donna facilmente dominabile e sottomessa. Sir Francis Bacon incarn? al meglio questo nuovo sentire allorch? scrisse nel suo ’De dignitate et augmentis scientiarum’ che la Natura doveva ’essere sottoposta a vincoli, plasmata, creata come se fosse nuova, dall’arte e dalla mano dell’uomo’.
Quelle parole avrebbero potuto essere contenute tali e quali nella missione aziendale della BP. Collocandosi audacemente presso quella che l’azienda chiama la ’frontiera energetica’, la BP ha messo mano alla sintesi di microbi che producono metano, e ha annunciato che la geo-ingegneria sarebbe stata ’una nuova area di indagine’. Naturalmente si ? anche vantata di avere, presso il suo giacimento Tiber nel Golfo del Messico, ’il pozzo pi? profondo mai scavato da un’industria petrolifera e del gas’, tanto profondo sotto il letto dell’oceano quanto in alto volano gli aerei sopra le nostre teste.
Nell’immaginario della BP non ci si ? concessi molto tempo a riflettere e prepararsi per ci? che sarebbe potuto accadere qualora questi esperimenti fossero andati storti. Come abbiamo avuto modo di scoprire, dopo che il 20 aprile scorso ? esplosa la piattaforma Deepwater Horizon, la compagnia petrolifera non aveva predisposto neppure un sistema in grado di reagire efficacemente a una tale emergenza. Nel tentativo di spiegare perch? la BP non avesse approntato sulla terraferma, disponibile a essere immediatamente attivata, neppure l’ultima cupola di contenimento, il portavoce Steve Rinehart ha detto: ’Credo che nessuno avesse previsto le circostanze che dobbiamo affrontare adesso’. A quanto pare, quindi, pareva inverosimile che la valvola antiesplosione potesse mai fare cilecca. Perch? prepararsi, dunque?
Questa mancata riflessione, questo non prendere in considerazione la possibilit? di un insuccesso naturalmente arrivano dall’alto.
Un anno fa Hayward aveva detto a un gruppo di specializzandi della Stanford University di tenere sulla propria scrivania una targa sulla quale ? incisa la seguente frase: ’Se sapessi di non poter fallire, in che cosa ti cimenteresti?’. Lungi dall’essere uno slogan positivo in grado di ispirare fattivamente, in realt? quella frase ? esemplificativa di come la BP e i suoi concorrenti si sono comportati nel mondo reale. Nelle recenti udienze a Capitol Hill, il deputato del Massachusetts Ed Markey ha torchiato i rappresentanti delle principali compagnie petrolifere e del gas affinch? rivelassero con quali modalit? hanno investito le loro risorse. ? cos? emerso che nell’arco di tre anni ’avevano speso 39 miliardi di dollari per esplorare nuovi giacimenti di gas e petrolio, mentre per gli investimenti medi nella ricerca e nello sviluppo di sistemi di sicurezza, nella prevenzione degli incidenti, nei provvedimenti di intervento da attuare in caso di perdite avevano speso una cifra irrisoria: appena 20 milioni di dollari l’anno’.
Queste priorit? spiegano molto bene perch? il progetto originario di esplorazione che la BP present? al governo federale per l’infausto pozzo Deepwater Horizon sia paragonabile a una tragedia greca sul tema dell’arroganza umana. L’espressione ’scarsi rischi’ vi compare ben cinque volte. Anche se ci fosse stata una perdita, con grande sicumera la BP prevedeva che grazie a ’macchinari e tecnologie collaudate’ gli effetti negativi sarebbero stati minimi. Presentando la Natura nelle vesti di un junior partner prevedibile e consenziente (o forse, meglio ancora, in quelle di un subappaltatore), il rapporto spiegava tranquillamente che qualora si fosse verificata una perdita accidentale di greggio, ’le correnti e la decomposizione microbica avrebbero eliminato il greggio dalla colonna d’acqua o ne avrebbero diluito gli elementi costitutivi riportandoli ai livelli precedenti’. Gli effetti sui pesci, nel frattempo, ’verosimilmente sarebbero stati subletali’, a causa della ’capacit? dei pesci adulti e dei crostacei di stare alla larga dalla perdita e di metabolizzare gli idrocarburi’. Dalle dichiarazioni della BP, insomma, pare quasi che per le specie acquatiche, un’eventuale perdita avrebbe potuto diventare l’occasione per un festino nel quale mangiare a crepapelle.
Ma c’? di pi?: qualora si fosse verificata una perdita, apparentemente ci sarebbero stati ’scarsi rischi di provocare un impatto negativo sulla costa’, grazie al sollecito intervento previsto dalla compagnia petrolifera (!), e ’alla distanza dalla costa della piattaforma’, circa 77 chilometri. Tra tutte, questa ? l’affermazione pi? clamorosa: in un golfo nel quale non sono insoliti venti che soffiano a 70 chilometri orari - per non parlare degli uragani - la BP aveva una tale scarsa considerazione delle capacit? dell’oceano di fluire e rifluire, di montare in ondate sempre pi? alte e di viaggiare a gran velocit?, da non arrivare neppure a immaginare che il petrolio avrebbe potuto coprire una distanza di appena 77 chilometri. (La settimana scorsa un frammento della piattaforma esplosa Deepwater Horizon ha fatto la sua comparsa su una spiaggia della Florida, a 306 chilometri di distanza).
Tutta questa negligenza e sciatteria, palesi in ogni singolo dettaglio, non sarebbero mai state possibili, in ogni caso, se la BP non avesse illustrato i propri progetti a una classe politica impaziente di credere con tutta se stessa che la Natura era stata effettivamente dominata. Alcuni, come la repubblicana Lisa Murkowski, erano pi? impazienti di altri: la senatrice dell’Alaska rimase a tal punto soggiogata dalle immagini geologiche quadrimensionali da proclamare che ormai le trivellazioni dei giacimenti in acque profonde avevano raggiunto l’apice dell’artificialit? perfettamente controllata. Appena sette mesi fa Lisa Murkowski aveva riferito alla Commissione sull’energia del Senato che ’in termini di come ? possibile utilizzare le tecnologie per lo sfruttamento di risorse risalenti a varie migliaia di anni fa, in un ambiente sicuro e protetto, le cose erano ancora pi? facili che a Disneyland’.
Trivellare senza preoccupazioni ? una prassi che rientra a tutti gli effetti nelle consuetudini politiche del partito repubblicano dal maggio 2008: quando i prezzi del petrolio raggiunsero livelli senza precedenti, il leader dei conservatori Newt Gingrich coni? e diffuse il suo nuovo slogan ’Drill Here, Drill Now, Pay Less’ (’Perfora qui, perfora adesso, paga meno’), dando un’enfasi particolare all’’adesso’.
La campagna, che godette di grande popolarit?, ? stata un grido contro la prudenza, contro ogni studio, contro iniziative ponderate. Nei discorsi di Gingrich, trivellare in patria ovunque possibile, ovunque potessero essere trovati gas e petrolio - nello scisto delle Montagne Rocciose come nelle oasi protette nell’Artico come in fondo agli oceani a grandi distanze dalla costa - diventava un modo sicuro e vincente per abbassare il prezzo della benzina alla pompa, creare posti di lavoro, dare un calcio una volta per tutte agli arabi. A fronte di questo triplice vantaggio, preoccuparsi per l’ambiente era roba da femminucce: come disse il senatore Mitch McConnell: ’In Alabama, in Mississippi, in Louisiana e in Texas pensano che le piattaforme petrolifere sono avvenenti’. Quando all’assemblea nazionale repubblicana inizi? a circolare lo slogan tristemente noto ’Drill Baby Drill’, la base del partito entr? in una tale frenesia per i combustibili fossili made-in-Usa che se soltanto qualcuno avesse portato con s? una trivella si sarebbero messi a scavare sotto il pavimento della sala delle conferenze nella quale si trovavano.
Alla fine, Obama si ? arreso, come fa immancabilmente. Con un tempismo a dir poco pessimo - appena tre settimane prima che la Deepwater Horizon esplodesse - il presidente ha annunciato che avrebbe aperto alle trivellazioni offshore alcune aree del Paese fino ad allora protette. Ha spiegato anche che tale attivit? non si presentava rischiosa, come aveva pensato. ’In genere, le odierne piattaforme non provocano perdite. Da un punto di vista tecnologico sono molto avanzate’. Ma neanche questo ? bastato a Sarah Palin, che ha schernito i progetti dell’Amministrazione Obama che prevedevano di condurre ulteriori studi prima di procedere alle perforazioni in alcune aree. Alla conferenza di New Orleans dei vertici del partito repubblicano del Sud, appena 11 giorni prima dell’esplosione della piattaforma, era sbottata dicendo: ’Dio santo, ragazzi! Queste zone sono state studiate fino alla nausea, ormai! Perforiamo e basta, ragazzi, perforiamo! Finiamola col menare il can per l’aia!’. E nella sala avevano esultato in molti.
Nella sua deposizione davanti al Congresso, Hayward ha detto: ’Noi e l’intero settore impareremo da questo terribile episodio’. E in effetti sarebbe proprio lecito supporre che una catastrofe di tale portata debba necessariamente instillare un nuovo senso di umilt? nella dirigenza della BP e tra i seguaci del ’Drill Now’.
Purtroppo, non risulta affatto che sia accaduto nulla di simile. La risposta al disastro - a livello di compagnia petrolifera come di governo - ? stata contrassegnata da quei medesimi precisi segnali di arroganza e di aspettative eccessivamente rosee che in primo luogo hanno provocato il disastro.
L’oceano ? grande, pu? sicuramente sopportare tutto ci?, ci siamo sentiti dire da Hayward i primi giorni. E questo mentre il portavoce John Curry insisteva che i microbi affamati avrebbero consumato qualsiasi quantit? di greggio si fosse riversata in mare, perch? ’la Natura ha i suoi sistemi per aiutare a risolvere le situazioni difficili’. Ma la Natura non ha collaborato affatto. Il pozzo di petrolio in piena eruzione della BP in acque profonde ha rifiutato ogni tipo di tappo, cupola contenitiva, iniezione di spazzatura che la BP ha organizzato. I venti e le correnti oceaniche hanno fatto apparire ridicole le leggere paratie galleggianti di contenimento che la BP aveva sistemato per assorbire e circoscrivere la chiazza di greggio. ’Gliel’avevamo detto: il petrolio passer? sopra le paratie o sotto di esse’, assicura Byron Encalade, presidente dell’Associazione dei coltivatori di ostriche della Louisiana. E cos? effettivamente ? stato. Il biologo marino Rick Steiner, che sta seguendo le operazioni di pulizia da vicino, calcola che ’il 70-80 per cento delle paratie galleggianti non serva assolutamente a nulla’.
E poi ci sono i controversi solventi chimici: con il solito atteggiamento della compagnia petrolifera del ’che cosa potrebbe mai andare storto?’, ne sono stati versati nell’oceano quasi cinque milioni di litri. Come hanno fatto notare in preda alla rabbia i residenti di Plaquemines Parish, su questi solventi sono stati effettuati pochi collaudi, e poche sono le ricerche condotte sugli effetti sulla vita marina che questa quantit? di greggio senza precedenti riversata in acqua pu? determinare. N? si conosce un metodo efficace per smaltire il miscuglio tossico di petrolio
e sostanze chimiche che si ? creato appena sotto il pelo dell’acqua. Certo, i microbi si moltiplicano rapidamente e divorano veramente il petrolio sott’acqua, ma nel farlo assorbono anche l’ossigeno dell’acqua, creando un’ulteriore minaccia per la vita marina.
La BP aveva addirittura osato fantasticare di poter impedire la ripresa di poco lusinghiere immagini di spiagge e uccelli ricoperti di greggio nel teatro del disastro e la loro diffusione. Per esempio, mentre perlustravo le acque del Golfo con una troupe della televisione, siamo stati affiancati da un’altra imbarcazione, il cui capitano ci ha chiesto: ’Lavorate anche voi per la BP?’. Quando abbiamo risposto di no, ha ribattuto che in tal caso non potevamo stare l?, al largo e in mare aperto. Naturalmente, anche queste tattiche, come tutte quelle dalla mano pesante, hanno fallito. C’? greggio in abbondanza, assolutamente ovunque. In troppi posti, ormai.
’Non puoi dire all’aria creata da Dio dove dirigersi e dove andare, e non puoi dire all’acqua dove scorrere e fluire’, mi ha detto Debra Ramirez, che lo ha imparato vivendo a Mossville, in Louisiana, circondata da 14 impianti petrolchimici che eruttano gas ed esalazioni varie, e osservando le malattie colpire un vicino di casa dopo l’altro.
Le costanti invariabili di questa catastrofe sono stati i limiti umani. Dopo due mesi, non abbiamo ancora idea di quanto greggio continui a fuoriuscire da quel buco, n? quando si fermer?. La promessa della compagnia petrolifera di portare a termine gli interventi riparatori entro la fine di agosto - ripetuta da Obama nel suo discorso pronunciato dallo Studio Ovale - ? considerata un bluff da molti scienziati. La procedura ? rischiosa e potrebbe fallire, e c’? dunque la concreta possibilit? che il greggio continui a venir fuori per anni.
Nemmeno le smentite si arrestano o lasciano supporre di essere in procinto di farlo. I politici della Louisiana in modo sdegnato ostacolano il temporaneo congelamento delle trivellazioni in acque profonde voluto da Obama, e arrivano ad accusarlo di sopprimere l’unica grande industria rimasta in attivo ora che la pesca e il turismo sono in crisi. Su Facebook Sarah Palin ha osservato che ’nessuna impresa umana ? mai esente del tutto da rischi’, mentre il rappresentante repubblicano del Texas al Congresso John Culberson ha definito il disastro un’’anomalia statistica’. La reazione pi? sociopatica in assoluto, in ogni caso, ? quella di Llewellyn King, un commentatore veterano di Washington, che ha affermato che invece di stare alla larga da gravi rischi ingegneristici, dovremmo soffermarci e ’lasciarci sorprendere dal fatto di essere in grado di costruire macchinari cos? efficienti da poter togliere il tappo al mondo sommerso’.

Fermate l’emorragia
Per fortuna, dal disastro molti stanno traendo una lezione diversa, e pi? che sbalordirsi per le capacit? dell’uomo di riplasmare la Natura, restano allibiti dalla nostra impotenza a gestire le sue fiere forze che noi stessi scateniamo. Ma c’? anche dell’altro: si va diffondendo la sensazione che quel buco sul fondo dell’oceano sia qualcosa di pi? di un incidente ingegneristico o di un semplice macchinario rotto, ma sia pi? simile a una violenta ferita inferta a un organismo vivente. Che sia una parte di noi. E grazie alle telecamere della BP, possiamo tutti osservare in tempo reale e in diretta, 24 ore al giorno, l’eruzione dal ventre della Terra.
John Wathen, un ambientalista di Waterkeeper Alliance, ? stato uno dei pochi osservatori ad aver avuto l’occasione di sorvolare la marea nera nei primi giorni del disastro. Dopo aver filmato le larghe strisce rossastre di greggio che la Guardia Costiera definisce carinamente ’lucido arcobaleno’, ha detto quello che molti pensavano: ’? come se il Golfo stesse sanguinando’. Quest’immagine torna assai spesso nei dibattiti e nelle interviste. Monique Harden, avvocato che a New Orleans si batte per il rispetto dei diritti dell’ambiente, si rifiuta di chiamare il disastro ’la perdita di petrolio’ e preferisce dire: ’Stiamo avendo un’emorragia’. Altri parlano apertamente della necessit? di ’fermare l’emorragia’. Io stessa sono rimasta molto colpita quando, sorvolando in compagnia della Guardia Costiera il punto dell’oceano nel quale ? affondata la Deepwater Horizon, ho notato come le macchie di greggio che si avvolgono a spirale tra le onde dell’oceano assomiglino a disegni rupestri, che rappresentano un polmone piumato che annaspa in cerca d’aria, degli occhi fissi puntati verso il cielo, un uccello preistorico. Come fosse un messaggio dagli abissi.
Questa ? sicuramente la piega inaspettata che ha preso la vicenda nel Golfo: pare che la marea nera ci stia scuotendo, ci stia mettendo sotto gli occhi una realt? dimenticata, quella che la Terra non ? mai stata una macchina. Dopo 400 anni dacch? ? stata dichiarata morta, nel ben mezzo di un’agonia di tale portata, la Terra sta tornando a vivere.
Seguire l’avanzata del petrolio in tutto l’ecosistema ? un’esperienza paragonabile a un corso intensivo in ecologia. Ogni giorno impariamo sempre pi? cose su come quello che sembra uno spaventoso problema in un’area isolata del pianeta in realt? ha ripercussioni che la maggior parte di noi non si sarebbe mai immaginata. Un giorno ci comunicano che la marea nera potrebbe raggiungere Cuba, e da l? l’Europa. Poi veniamo a sapere che i pescatori fin su nell’Atlantico, nell’Isola del principe Edoardo, sono in grande apprensione, perch? i tonni dalla pinna blu che pescano al largo delle loro coste nascono a migliaia di miglia di distanza, proprio nelle acque del Golfo devastate dal greggio. E infine apprendiamo anche che per gli uccelli le paludi della costa del Golfo sono l’equivalente di un importante snodo aeroportuale, dove pressoch? tutti devono fermarsi almeno un po’. Sono infatti state censite in quelle paludi circa 110 specie di uccelli canori e il 75 per cento di tutti gli uccelli palustri migratori degli Stati Uniti.
Una cosa ? che un astruso esperto della teoria del caos venga a dirti che il battito d’ali di una farfalla in Brasile pu? scatenare un tornado in Texas, e un’altra ? osservare la teoria del caos manifestarsi sotto i tuoi stessi occhi. Carolyn Merchant sintetizza questa lezione in questi termini: ’Il problema, come ha tragicamente e tardivamente scoperto la BP, ? che la Natura ? una forza attiva che non pu? essere arginata’. Nei sistemi ecologici gli eventi sono prevedibili solo molto di rado, mente quelli imprevedibili e caotici sono consueti. E se ancora non l’avessimo capito, alcuni giorni fa la saetta di un fulmine ha colpito come un punto interrogativo una nave della BP, costringendola a interrompere i tentativi di contenimento del greggio. Per non parlare nemmeno, poi, di quello che con la sbobba tossica della BP potrebbe combinare un uragano.
Dobbiamo dirlo senza mezzi termini: c’? qualcosa di significativamente sbagliato nell’iter particolare che abbiamo seguito verso l’illuminazione. Si dice che gli americani imparino dove si trovano i Paesi stranieri allorch? li bombardano. Adesso sembra proprio che stiano imparando a conoscere i sistemi circolatori della Natura intossicandoli.
Alla fine degli anni Novanta, un gruppo isolato di aborigeni della Colombia attir? l’attenzione delle prima pagine dei giornali di tutto il mondo con una sorta di conflitto in stile Avatar. Dalla loro remota terra nelle foreste amazzoniche andine gli U’wa fecero sapere che se l’Occidental Petroleum avesse portato a compimento il progetto di effettuare perforazioni per estrarre petrolio nel loro territorio, si sarebbero suicidati con un rito di massa, gettandosi gi? da una rupe. Gli anziani spiegarono che il petrolio ? parte della ’ruiria’, il sangue della Madre Terra. Credevano che ogni forma di vita, inclusa la loro, avesse origine dalla ruiria, e pertanto estrarre il petrolio dalla Terra avrebbe comportato la loro stessa distruzione. (Oxy alla fine ha cambiato idea, affermando che in quella regione non c’era tanto petrolio quanto aveva ipotizzato).
Quasi tutte le culture indigene hanno miti sulle divinit? e gli spiriti che vivono nel mondo naturale come credevano anche le culture europee prima della rivoluzione scientifica. Katja Neves, antropologa della Concordia University, sottolinea che questa usanza serve una finalit? pratica: chiamare sacra la Terra ? un altro modo per esprimere l’umilt? degli uomini di fronte a forze che non capiscono fino in fondo. Quando qualcosa ? sacro, ? necessario procedere con cautela. Addirittura con timore reverenziale.
Se finalmente stiamo imparando questa lezione, le sue implicazioni potrebbero essere considerevoli. Il sostegno dell’opinione pubblica all’estrazione di greggio offshore sta calando vistosamente, e dai tempi della frenesia del ’Drill now!’ si ? scesi di 22 punti percentuali. In ogni caso: ? soltanto questione di tempo prima che l’Amministrazione Obama annunci che grazie a nuove ingegnose tecnologie, grazie a nuove severe normative, sar? perfettamente sicuro estrarre petrolio negli abissi oceanici, e perfino nell’Artico, dove ripulire un’eventuale perdita di greggio sotto i ghiacci sarebbe infinitamente pi? complesso dell’operazione attualmente in corso nel Golfo. Forse, per?, questa volta non ci lasceremo rassicurare tanto facilmente. Non ci lasceremo indurre a giocare d’azzardo con i pochi paradisi protetti rimasti.
La stessa cosa vale per l’ingegneria climatica. Nel momento in cui i negoziati sul cambiamento del clima si trascinano, dovremmo essere pronti ad ascoltare pi? attentamente Steven Koonin, il sottosegretario all’energia per la scienza di Obama. Steven Koonin ? uno di quelli che sostengono che il cambiamento del clima pu? essere combattuto con trucchetti tecnologici, come immettere particelle di solfati e di alluminio nell’atmosfera, e naturalmente tutto ci? ? perfettamente sicuro! Si d? il caso che egli sia anche l’ex responsabile scientifico della BP, colui che appena 15 mesi fa aveva il controllo della tecnologia alla base della dichiarazione di presunta sicurezza fatta da BP in relazione alle perforazioni di giacimenti in acque profonde. Forse, questa volta sceglieremo di non permettere che il bravo dottore faccia i suoi esperimenti con la fisica e la chimica terrestri, e che scelga invece di ridurre i nostri consumi energetici e di passare alle energie rinnovabili che hanno il pregio, qualora non dovessero funzionare, di arrecare danni minimi. Come dice il comico statunitense Bill Maher: ’Sapete che cosa succede quando un mulino a vento cade in mare? Fa ’splash’!’
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L’esito pi? positivo che possiamo auspicare dal disastro odierno non ? soltanto un’accelerazione nello sfruttamento delle fonti di energie rinnovabili come il vento, ma anche l’accoglimento da parte della scienza del principio di precauzione. A mo’ di contraltare del credo di Hayward, il principio di precauzione sostiene che quando un’attivit? presenta il rischio di poter arrecare danni all’ambiente o alla salute umana, si deve procedere con grande attenzione, come se l’insuccesso fosse possibile, addirittura probabile.
Forse, potremmo persino far avere a Hayward una nuova targa per la sua scrivania, dove firma assegni per i risarcimenti. Una targa sulla quale sia inciso: ’Vi comportate come se sapeste, ma in realt? non sapete nulla’.
Traduzione di Anna Bissanti


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