Fora...Rivista elettronica del movimento separatista rivoluzionario meridionaleNumero mobile - Marzo 2000EDITORIALE ATTENDO Nicola Zitara INDICE |
- ogni posto di lavoro impegna un capitale consistente, a volte parecchi miliardi, una cifra che nessun lavoratore possiede, o come si dice correttamente, un capitale;
- la produttività del lavoro è cresciuta e continua a crescere enormemente, di conseguenza una minoranza di lavoratori, insediati su spazi ristretti, producono quanto il marcato richiede, cioè quello che masse sterminate di uomini sono in condizione di comprare. L'esempio classico è quello delle cotonine, la cui produzione, un tempo, impegnava decine di milioni di telai e di tessitori e tessitrici, interi continenti, mentre oggi è coperta da qualche migliaio di impianti, ciascuno dei quali impiega qualche centinaio di lavoratori.
Nicola Zitara
Tutta légalité
0. Il progetto
0.1 Negli ultimi centocinquantanni lumana domanda di giustizia sociale e di democrazia economica ha avuto il nome di socialismo o di comunismo. Ma il socialismo reale non ha retto alla guerra commerciale e "virtuale" scatenatagli contro dallimperialismo occidentale, né allistanza interna di efficienza e libertà. Si è sfasciato, sfasciando un grande paese come lURSS e trascinando (temporaneamente, speriamo) nel suo crollo gli ideali egualitari e internazionalisti.
La classe lavoratrice dei paesi ricchi appare rassegnata, mentre gli intellettuali cosiddetti di sinistra si sono affrettati a voltare gabbana. Peraltro anche prima del crollo sovietico il proletariato occidentale aveva fatto capire dessere pago delle "sue" nazioni, preferendo, per il resto, fare come lo struzzo. Nello stesso tempo, il capitalismo offriva medaglieri universitari ed editoriali allambizione e vanità dellintellettualità di sinistra.
Al contrario, i paesi poveri e alcuni paesi che poveri non sono, ma sono sicuramente marginali rispetto allassetto capitalistico, traggono dalle stesse difficoltà in cui versano la speranza che il sistema cambi.
Il socialismo, che ha fatto da levatrice allo Stato democratico nellEuropa industrializzata e in tutto lOccidente, libera i suoi fermenti in altri luoghi. Nelle aree marginalizzate, dove il liberismo capitalistico si converte nellideologia del dominio forestiero e corrisponde alla forza efficiente del sottosviluppo, lenzima della giustizia socialiale potrebbe far lievitare ben altro pane che la rassegnazione.
Oggi, per i paesi marginali della prima cerchia, come lItalia del Sud, il problema industriale è tutto. Ma, al Sud, lidea di unindustrializzazione capitalistica è una contraddizione in termini, in quanto il capitalismo è la vera e unica fonte della disoccupazione e dellimproduzione.
La rivoluzione meridionale e lindipendenza del popolo magnogreco bisogna che si tingano del rosso ardore socialista. Tutte le altre proposte di Rivoluzione meridionale sono, infatti, archeologia fallimentare. Il Sud di oggi non avrà altra rivoluzione che quella che il separatismo rivoluzionario saprà ispirare.
0.2 La previsione del Manifesto di Marx si è interamente avverata. Le merci capitalistiche - messi in linea i cannoni a lunga gittata dei loro bassi prezzi - hanno abbattuto ogni frontiera. Dove non hanno liberato i popoli dal bisogno, li hanno asserviti al profitto capitalistico, generando, con la disoccupazione, il proletariato esterno.
Proteggere lequilibrata evoluzione delle varie formazioni sociali con frontiere nazionali, che abbiano la funzione di combattere la disoccupazione capitalistica attraverso la valorizzazione delle risorse disponibili, rappresenta listanza primaria dellodierna lotta di classe.
Sarà, questa, sicuramente una strada piú lenta e forse piú tortuosa del vecchio, ma vacuo, internazionalismo proletario. Potrebbe persino apparire il suo rovescio. Ma listanza rimane intatta, la bussola è sempre quella. Linternazionalismo produttivo saprà trovare sicuramente espressioni meno beffarde dellONU e della Banca mondiale degli investimenti, botteghini quaresimali dove limperialismo occidentale mette in commercio le sue micragnose indulgenze.
Una frontiera mercantile è temporaneamente indispensabile tra il Sud dItalia e lEuropa comunitaria. Il Sud dItalia è un paese di lavoratori formati per partecipare alle produzioni piú avanzate; in sostanza di produttori del primo livello industriale. Infatti, lemigrazione meridionale fa da esercito industriale di riserva per la Germania, per lItalia bossista, per il Canada, per lAustralia, mentre lindustrializzazione del paese meridionale non decolla, bloccata e placcata comè - e comè stata per oltre un secolo - dalla fiera determinazione contraria del capitalismo padano.
Con altrettanta determinazione bisogna impegnarsi a rompere il blocco coloniale.
Il separatismo rivoluzionario è la strada obbligata.
0.3 La nostra concezione socialista prende le mosse dallinsegnamento marxista, ma è giusto tenga conto del fatto che la pianificazione socialista e la divisione del prodotto sociale di tipo burocratico si sono rivelate esperienze fallimentari.
Andiamo alla radice. Il valore duso è un fatto privato, il valore di scambio è il fatto sociale. Pensiamo che in un sistema socialista lo scambio di equivalenti, il mercato, anziché soppresso, debba essere esaltato. Daltra parte la stessa analisi marxiana - scientifica, e scientificamente brillante a proposito delle merci e del mercato - pare invece compiere un salto logico quando - dimentica delle sue fondamentali scoperte antropologiche - approda allidea comunista, cioè a un modello economico dove il lavoro e la produzione non sono coordinati dal valore del lavoro e su questo incardinati.
Viviamo in un mondo di produttori di merci e il mercato, che è la piú efficiente creazione collettiva della storia, oggi unisce i produttori, gli uomini di tutto il mondo.
A questo vincolo universale - nonostante ogni contraria apparenza - si oppone proprio il capitalismo, internazionalista a parole, in pratica una disumana e ingorda loggia di paesi ricchi in gara fra loro su come beffarsi del libero mercato.
Per superare il sottosviluppo sarà sufficiente che tutti lavorino; un lavoro a ciascuno e a tutti è la giusta strada perché diminuisca il malessere e cresca il benessere.
La nostra ambizione è palese: allinterno, riproviamo con lautogestione di mercato e, allesterno, con il protezionismo funzionale. Se vinceremo nellItalia megaellenica, allumanità sottosviluppata sarà offerto un modello, un esempio, su cui riflettere.
1. Lo scambio
1.1 La merce è figlia legittima della divisione del lavoro e madre dello scambio. Allorigine, il produttore manifatturiero lavorava su commissione e conosceva in anticipo la persona del compratore, in genere un agricoltore, il quale dava derrate in cambio del manufatto. In appresso i manufatti vennero prefabbricati ed esposti per la vendita in occasione di fiere e mercatini paesani, nel corso dei quali anche i contadini offrivano i loro surplus. In tal modo il lavoro si è industrializzato e il prodotto è divenuto merce, cioè un bene offerto in vendita allacquirente qualunque.
Quando apparve il danaro, una percentuale della produzione agricola (i surplus familiari) e praticamente tutto il prodotto manifatturiero divennero merce. Sicché noi possiamo definire "merce" quel bene di regola prodotto in serie, dalla cui vendita il produttore si aspetta un incasso in danaro.
Danaro in cambio della propria merce e merce in cambio del proprio denaro: in questo processo siamo andati cosí avanti che può sembrarci dessere già alla fine del percorso. Il bambino che al mattino fa colazione con una ciotola di latte, zucchero, cacao e fette biscottate, deve saltarla se la sera prima la mamma ha dimenticato di fare le provviste e se il negozio sotto casa è ancora chiuso. Oggi, sul desco, la roba fatta in casa si vede raramente e quel che si consuma arriva da ogni posto del mondo.
Lo scambio generalizzato, anzi planetario, è la piú colossale e meravigliosa macchina costruita dalluomo. I pneumatici della mia automobile sono stati fabbricati in Francia con materie prime e semilavorati provenienti da tutti i continenti, senza i quali sarebbe impossibile fabbricare pneumatici. Quandanche io fossi uno Sherlock Holmes della merceologia, mai potrei rintracciare laltro uomo che ha raccolto il mastice, chi lha trasportato in Francia, loperaio che ha lavorato alla carcassa (o come altro si chiama), colui che ha preparato limpasto, chi ha manovrato la pressa, e via dicendo.
Per avere i pneumatici ho dato denaro, frutto del mio diverso lavoro; danaro il cui equivalente, attraverso mille canali e mille travestimenti, raggiungerà o ha già raggiunto coloro che hanno contribuito alla loro produzione.
Bisogna però annotare che in questo meccanismo, la cui descrizione è riuscita difficile e incompleta persino ai piú dotti fra gli economisti, ciascuno di noi si sente solo e indifeso: solo con le sue buste di latte, il suo pacco di cacao, la sua confezione di fette biscottate, il suo metano algerino, il suo fornello marchigiano, il suo accendino vu cumprà, il suo televisore giapponese, e se la luce è accesa, la sua lampadina olandese.
Solo con il proprio denaro, unico vero scudo. Infatti, oggi, in una società guasta dal capitalismo, non il lavoro - la propria capacità di produttore - dà sicurezza, ma la sua interfaccia in filigrana di Stato. Questo accade perché tuttora, nonostante tante affermazioni circa la democrazia in cui vivremmo, le fonti di lucro non lavorative, che restano parecchie e - purtroppo - assorbono oltre la metà del valore prodotto dal lavoro, "comandano" il lavoro.
Loffesa al lavoro umano ha spinto uomini infinitamente lucidi a temere il mercato e a preferirgli forme di scambio di tipo burocratico. E tuttavia rappresenta un grossolano errore dimenticare che, storicamente, il mercato è alla base delle nostre libertà private e pubbliche; propriamente coincide con la fine della servitú della gleba.
Se il capitalismo non vi avesse messo sopra il suo tallone, il mercato potrebbe essere il luogo in cui luomo riconosce le qualità di produttore dellaltro uomo. Un diritto, quello di vedere la propria opera individuata con il proprio nome, oggi riservato a poche categorie di non capitalisti, quali i narratori, i poeti, i musicisti, gli inventori e simili, ma a ogni capitalista che fabbrica e vende qualcosa, sarebbe invece un diritto di ciascun produttore.
1.2 Il mercato è nato spontaneamente nei pori del comunismo primitivo ed era già chiaramente impostato nellarea mediterranea sul finire delle civiltà litiche, cioè parecchi millenni prima della nascita di Cristo. Ma la nostra indagine non richiede di andare tanto indietro. A noi basta accennare ai fenomeni antropologici che ne accompagnarono la nascita nellEuropa che oggi conta, sul finire del Medioevo; un mondo sfiorato, o appena toccato dalla civiltà greco-romana, quando i clan germanici e slavi praticavano ancora scambi poco significativi e al loro interno la divisione del lavoro si trovava allo stadio piú basso.
Conservata e riproposta dai bizantini e dagli arabi, la cultura manifatturiera riesplose nei comuni italiani, allorché il contado circostante pervenne alla condizione di alimentare le città con i suoi surplus, evidentemente consistenti. E qui, nelle città, risorse la divisione del lavoro, su cui si andò sviluppando un circuito della ricchezza proficuo ed esemplare. Esso partiva dalla terra, che sostentava contadini e signori, e raggiungeva i proprietari inurbatisi e gli artigiani, i loro discepoli e manovali. Ripartendo da costoro, si ridistribuiva: il ramo piú importante tornava alla terra, laltro continuava a circolare in città, dove una quota del surplus veniva rinvestita nellallargamento della manifattura.
Esisteva - alimentato allo stesso modo - anche un circuito europeo che spostava surplus verso lItalia, nonché un movimento continentale di manufatti dallOriente allEuropa, e di oro europeo allOriente.
La rinascita italiana stimolò altrove lesigenza di trattenere il proprio surplus e, conseguentemente, la nascita della manifattura e della divisione del lavoro in parecchi paesi. Iniziò, cosí, per lEuropa, e poi per lintero Occidente, unetà economicamente felice, quella stessa che tuttora perdura.
1.3 Diversamente che in agricoltura, dove di regola lo stesso lavoratore accompagna il prodotto dallinizio alla fine del ciclo annuale, il processo di produzione manifatturiero parte da un certo punto dellelaborato: quello corrispondente alla raggiunta fase di divisione del lavoro. Per esempio, il lavoro del boscaiolo parte dallalbero ancora da tagliare; quello del falegname dal legno stagionato; quello del minatore a volte si ferma allestrazione del minerale grezzo, a volte raggiunge la fase della sua depurazione; quello del fabbro parte dal ferro già depurato, e via dicendo.
La lingua è il sedimento che dà testimonianza del fenomeno antropologico chiamato "divisione del lavoro", e lo fa attraverso i nomi delle figure professionali: il carpentiere, il calafato, il vetraio, ecc. I nomi dei vari artigiani altro non sono se non il glossario dellantica divisione del lavoro.
Se dico "vasaio" tutti sappiamo che egli lavorava con un tornio, costruito da qualcuno usando un tronco dalbero, e con largilla, che un altro aveva estratto dalla cava.
La bottega del vasaio non si aveva né nella fase precedente di lavorazione, né in quella successiva; né prima con un tronco dalbero, né dopo, con i vasi venduti al mercato. Insomma il vasaio era quel particolare lavoratore che tutti sapevano in base alla tradizione.
Il tornio e largilla rappresentano ciò che chiamiamo lavoro morto (il capitale), beni già definiti, che il vasaio manipolerà e valorizzerà applicandovi la sua arte e la sua fatica. Sono lavoro morto nel senso di già fatturato. Estrarre e trasportare largilla costa un tot, sia che ad acquistarla sia il vasaio, sia il fornaciaio. Il carpentiere che fabbrica torni pretende un certo prezzo tanto che abbia di fronte a sé un vasaio quanto che abbia di fronte a sé uno storico del folklore.
Lavoro morto e lavoro vivo sono le due componenti del valore di un manufatto. Il primo è una componente costante, già definita e nota; il secondo la componente attiva, mobile, variabile, nel senso contabile astratta, in quanto non corrisponde al prezzo del salario. È quanto valore aggiunge il vasaio, usando il tornio, alla cosa argilla; ma non sempre è il suo ricavo.
Tre chilogrammi dargilla trasformati in un mattone pieno valgono mille lire, ma tre chilogrammi dargilla trasformati in una cuccuma per berci lacqua fresca destate, valgono decine di volte tanto. La ragguardevole differenza corrisponde alla diversa qualità e al diverso tempo di lavoro messi in opera. E non corrisponde invece al prezzo dellargilla, la quale viene estratta e messa in vendita senza chiedere che mestiere fa chi la compra.
Ciò ribadisce e rispiega che il valore del lavoro morto entra nel valore del bene finale sempre per quel che costa, e non in relazione a ciò che se ne fa o se ne vuole fare. Spetta al lavoro vivo, in base alla sua qualità e al suo tempo, di conferire al bene prodotto una qualità duso, o funzione diversa, specifica, nonché "segnare" il suo valore relativo presso gli altri uomini.
1.4 Fin qui il discorso è stato agevole. Un manufatto viene di solito realizzato con una successione di lavorazioni, in cui lultima impiega quella precedente come materia prima. Usando le proprie attrezzature e applicando il proprio lavoro, lo specialista successivo ne definisce il nuovo valore. La complicazione arriva quando vogliamo definire il valore del lavoro.
Perché il vasaio continui a fare il suo mestiere, il prezzo del vaso che vende deve pagargli sicuramente la quantità dargilla consumata, il logorio del tornio, che prima o poi andrà rinnovato, una frazione dellaffitto del locale in cui lavora, ma anche il tempo che impiega a fabbricare un vaso di quelle dimensioni e di quel tipo, la qualità e quantità del suo personale lavoro.
Se non ottiene almeno questo, alla prima occasione cambierà mestiere. O andrà a fare il vasaio in un altro luogo.
Se nella nuova sede largilla costa meno, perché il punto destrazione è piú vicino o le cave piú fertili, il prezzo dei vasi sarà minore; ma minore di quel tanto che corrisponde al minor prezzo dellargilla. Se, invece, costassero meno il vitto e lalloggio, non è affatto scontato che il vasaio si pagherebbe corrispondentemente meno il suo (tempo di) lavoro. Infatti il prezzo del lavoro non è stabile, ma oscillante in quanto dipende dalla concorrenza che i lavoratori si fanno fra loro: in pratica dal loro numero, in rapporto alla domanda della merce che producono; in sostanza, nellambito di un dato mestiere.
Se, mettendo a confronto lanalisi marxiana con lesperienza storica, volessimo definire un caso in cui il valore del lavoro si realizzi interamente, è giocoforza pensare allartigiano rinascimentale - padrone di sé, della sua tecnica e del suo prodotto - o al proprietario coltivatore diretto. La piccola produzione mercantile, schiacciata tra il feudalesimo al tramonto e il capitalismo nascente, senzaltro tarata dal suo stesso assetto corporativo, fu soltanto la cresta di unonda, che ridiscese e si spense fra i bassi prezzi della manifattura a domicilio dei contadini, promossa dai mercanti possessori di danaro. Ma il modello è rimasto nella memoria degli utopisti, degli anarchici e del cristianesimo sociale.
1.5 Di scambio neppure si parlerebbe se le merci non potessero riconoscersi fra loro. Noi ci limitiamo a leggere i prezzi scritti sui cartellini, ma il prezzo è soltanto lidea del rapporto di dominazione privata tra limmane presenza dellofferta capitalistica e la solitudine del consumatore(1). Dietro questa figurazione astratta deve necessariamente esserci una qualche sostanza reale.
Gli economisti classici spiegano che essa risiede nel lavoro umano applicato alle materie prime esistenti in natura. Infatti le materie fornite dalla natura, il lavoro fisico e lintelligenza degli umani sono gli elementi comuni a tutte le merci, quelli che le aiutano a scambiarsi luna con laltra. Nel processo di valorizzazione della natura, il tempo di lavoro e le qualità professionali del lavoratore si intrecciano fra loro. Sul lavoro morto - cioè sulle materie prime, i semilavorati, le macchine, gli impianti, i brevetti e quantaltro lavoro al passato venga acquistato e riversato nel processo produttivo attuale - si affatica il lavoro presente, che resuscita fisicamente il primo e lo incorpora nel prodotto in corso di lavorazione.
1.6 Lo scambio avviene tra merce e danaro e tra danaro e merce. In sostanza due beni di diversa utilità stanno ai due capi dello scambio. E tuttavia - labbiamo già accennato - di valore equivalente.
Limpiego del denaro facilita gli scambi sul mercato, però nasconde il rapporto di valore. Per dirla semplicemente, può far dimenticare il senso della condanna biblica: "E tu uomo faticherai con il sudore della tua fronte". Perché di questo si tratta: di lavoro. Per soddisfare i suoi bisogni, luomo è costretto a lavorare.
Se il contadino lavora il suo campo assieme alla moglie e ai figli, e insieme consumano tutto quello che hanno prodotto, il conto si chiude con il risultato della pura sopravvivenza. Ma se, nei giorni di cattivo tempo, la moglie lavora al telaio qualche metro di panno e lo vende al mercato domenicale, riceverà del danaro.
Ma quanto? Naturalmente in rapporto al prezzo del panno in quel posto, a quel tempo. Chi compra panno e chi lo vende, di solito, è bene informato a riguardo. Il prezzo esiste e cambia. È nato automaticamente e cambia automaticamente. Si tratta certamente di uninvenzione umana, ma di quelle che vengono realizzate nel tempo, attraverso la secolare ripetizione, come i sentieri di montagna.
Mettiamo che, a quel tempo, operi in quel luogo una corporazione di tessitori, i quali abbiano fissato un prezzo vantaggioso per loro. La nostra contadina, per infilare tra le maglie di questo mercato artefatto il suo panno, loffrirà a un prezzo minore. Ma poi non tanto minore; solo quanto basta per attirare il cliente.
Una contadina sua vicina, avendo osservato che fa qualche affare, si mette anche lei a tessere panno. E poi unaltra e unaltra ancora. Ma, fattesi numerose, le contadine tessitrici, se vogliono vendere tutto quel che adesso producono, debbono ribassare ulteriormente il loro prezzo.
Nonostante ciò, altre contadine ne seguono lesempio. A un certo momento, però, lallargamento del lavoro di tessitura si interrompe. Non va piú avanti. Le altre contadine del luogo, che sanno o potrebbero imparare il mestiere, non le seguono piú. Anzi si mettono, per esempio, a pettinare lana. Il perché è evidente: quel lavoro non è piú remunerativo. Se proprio bisogna fare un (tempo di) lavoro supplementare, per aggiungere qualcosa al magro reddito del campicello, ebbene, è conveniente lavorare dove si guadagna.
Lo scalcinato apologo ci racconta che dietro il prezzo con cui le merci si presentano sul mercato cè una bussola che guida chi trasforma il suo lavoro in merci (e persino in autosussistenze), la quale bussola, però, non ci dice: "non lavorare piú, non ti conviene", ma semplicemente: "stai lavorando per poco, se cambi lavoro, puoi guadagnare di piú".
Questa bussola è la remuneratività del tempo di lavoro, o meglio della frazione di lavoro socialmente utile che ciascuno di noi esprime; un fenomeno di cui prendiamo indirettamente coscienza, come avviene per ogni determinazione dellindividuo, che scaturisce da quei sedimenti della coscienza collettiva che possono apparire una seconda natura.
Si badi, le contadine di cui sopra non sono delle lavoratrici dipendenti, ma delle artigiane indipendenti. In sostanza sono delle aziende individuali, che entrano e restano sul mercato se il loro "lavoro" è remunerativo, come qualunque azienda, piccola o grande che sia.
Ma se adesso proviamo a invertire i termini del concetto sopra espresso, avremo che il mercato remunera le contadine tessitrici se il loro lavoro è socialmente utile. Altrimenti fa cadere la loro remunerazione, cosa che è un esplicito invito a non sprecare lavoro sociale.
Ciò acquisito, possiamo permetterci un altro salto sul trapezio delleconomia. Immaginiamo di poter inserire in un computer tutte le fatture e i conti pagati in un anno da tutti gli abitanti della terra. Non vè dubbio che se riuscissimo a dargli tali dati, il computer ci darebbe rapidamente il totale. Sapremo, allora, quale somma sarà stata complessivamente spesa per linsieme lavoro morto e lavoro vivo.
Ma saputo questo, dopo tanta fatica non sapremo niente. Infatti i prezzi sono espressi in danaro che, se non è una finzione, è sicuramente una convenzione. Non sapremo, per esempio, se la gente ha lavorato piú o meno dellanno precedente, se sta meglio o peggio, se ha da mangiare o muore di fame. Infatti i prezzi mutano, fluttuano, scendono, precipitano, salgono, e non solo a causa di situazioni reali, come labbondanza o le carestie, ma per motivi, piú che artificiali, posticci, come le speculazioni finanziarie, o lerronea politica dei governi, o perché un dritto vuole fare fesso il debole, come accadde con linconvertibilità del dollaro, ecc.
Per avere una risposta soddisfacente alle domande di cui sopra bisognerà sapere i dati della produzione reale: quanti tappeti, quanto grano, quanto sapone, quanti vitigni sono stati prodotti in quellanno.
Nonostante tutte le falsificazioni introdotte dal capitalismo, il dato reale emerge e gli uomini - i produttori - inconsapevolmente si ridistribuiscono il lavoro; se lo dividono fisicamente, perché vi impegnano la loro fatica fisica e intellettuale, rischiando, imprecando, sperando. Che poi, su questo stupefacente bailamme svolazzino dollari, marchi, lire, pesete, assegni e titoli, dovrebbe essere una comodità, se la comodità non fosse stata trasformata in una buffonata dai Buffalmacco di tutto il mondo ai danni di cinque miliardi circa di Calandrini.
Non è quindi il prezzo, lincontro della domanda e dellofferta - che è semmai il regno marginale dellintermediazione e il termometro che misura i bisogni e la penuria - a determinare il valore, ma il lavoro socialmente utile incorporato nelle merci, secondo la sua quantità e qualità. Il prezzo svolazza intorno al valore, e non si incolla al valore perché anche il meccanismo dello scambio necessita di spazi di autonomia. Però con il prezzo nessuno si nutre, su un prezzo nessuno si può sedere, con un prezzo nessuno si veste. Utilità sono invece il grano, le sedie, labito, la visita del medico, il consiglio dellavvocato, il quadro che adorna lambiente, la musica che muove ragioni inesplorate della mente. E prima di divenirlo, sono state lavoro. Lavoro socialmente utile di ciascuno di noi, il quale dà diritto ad avere in cambio beni in proporzione diretta del nostro contributo al lavoro universale. Ciò che diamo è misurato dal valore dei beni che abbiamo prodotto o contribuito a produrre, ciò che riceviamo è misurato dal valore dei beni, prodotti da altri, che pervengono a noi. Tra lindividuale dare in merci e servizi, e lavere in merci e servizi, cè equivalenza. Anzi ci sarebbe equivalenza, se nellequazione non fosse penetrato, come il fuoco del diavolo, il capitalismo.
Il fatto che il capitalista si appropri di una quota del valore, o il fatto che un popolo estorca a un altro una frazione, non modifica il totale, anche se poi la torta risulta mal divisa.
1.7 I rapporti organizzati sulla base dello scambio di valori generarono luomo greco e hanno rifondato luomo moderno e lattuale sistema giuridico, sia privato che pubblico. In effetti il cittadino, luomo libero, sui iuris, è stato partorito dal pieno diritto di vendere e di comprare. Lidea di libertà è sempre quella greca, romana e borghese delle origini; altra non esiste. Anche la struttura del negozio giuridico è rimasta identica nel tempo. Tuttora lo scambio è un negozio giuridico bilaterale - un contratto - che il vigente Codice Civile chiama compravendita. In quanto negozio bilaterale, la compravendita comporta due autonomi atti di volontà, quello del venditore e quello del compratore, rivolti a scambiare la cosa convenuta contro il
prezzo concordato. Presupposto ineliminabile è che il venditore e il compratore siano "persone" per il diritto, cioè soggetti dotati di capacità giuridica.
Lo stesso discorso si deve fare per tutti i contratti che fanno alone alla compravendita, signora dun ordinamento civilistico fondato sullo scambio.
Sul finire del Medioevo, allincerto diritto feudale, incline alla personalizzazione delle regole, venne a contrapporsi lesigenza di una norma generale e comune a tutti, che garantisse gli attori di una società che andava assumendo il passo dei produttori e venditori di merci. Ora, se, a livello privato, la funzione sociale del negozio veniva spontaneamente riconosciuta, politicamente invece era necessario "identificare" le persone portatrici del potere giuridico per metterlo in essere; cosa che in conclusione voleva dire luguaglianza di tutti i proprietari, persino dei proprietari di sé stessi soltanto, cioè dei proletari.
In effetti, le invasioni barbariche e la conseguente regressione dellEuropa romanizzata alleconomia di sussistenza avevano cancellato o almeno grandemente offuscato la concezione della libertà contrattuale che era stata elaborata dai romani. Anche lidea di proprietà privata era stata grandemente sconvolta. Ragionando con gli strumenti catalogatori di un giurista moderno, lunico proprietario era il re e lunico titolare di diritti era il re, il quale concedeva a un feudatario il godimento della terra e il potere sugli uomini che vivevano e vi lavoravano sopra. La concessione ricevuta autorizzava altre concessioni. Il secondo concessionario - il valvassore - spesso diveniva a sua volta concedente rispetto a un terzo concessionario. Alla base stava un uomo teoricamente non libero e teoricamente non padrone del suo; in pratica, invece, un uomo che godeva di situazioni possessorie corrispondenti al diritto di libertà e al diritto di proprietà, ma solo fino a quando la sua posizione politica non veniva scompigliata da una forza superiore.
Ora, questo sistema poteva applicarsi sul corpo di una società regredita. Il servo della gleba e il feudatario di primo o secondo o terzo rango vivevano della terra e dei suoi prodotti. La signoria si esercitava sulle giornate lavorative del contadino e/o nel conferimento di quote della sua produzione al castello, dove venivano impiegate per mantenere la piccola corte, gli armati e gli artigiani al servizio della casa. Come al tempo delle società primitive, nellEuropa medievale esistevano dei piccoli scambi rituali e anche di valore. E se il castellano accumulava delle eccedenze, le alienava alla città o nelle città.
Il sistema feudale ostacolava invece i singoli produttori per il mercato, i quali sotto la spinta della crescente produttività agricola si moltiplicavano di numero, tanto in Italia quanto Oltralpe.
La formazione di surplus, che corrisponde allaumento della produttività corrente, spinge il produttore a concepire e a formulare bisogni nuovi, ai quali, di regola, non sa provvedere da sé, ma può soddisfare rivolgendosi ad altri produttori con la proposta di uno scambio. E tuttavia la diffusione e crescita degli scambi - e in ultimo la formazione di un mercato stabile e professionale - chiedeva "certezze" giuridiche che il diritto feudale non dava, o non dava a tutti.
La storia successiva ci spiega che esse erano principalmente: (uno) che i contraenti fossero proclamati "soggetti" (titolari) del pieno diritto di proprietà (anzi proprietari per diritto di natura, cioè originario, innato di ciascun uomo, e non per volontà "umana" del legislatore) e (due) che la piena proprietà dei beni fosse la premessa del diritto di trasferire liberamente (cioè senza lassenso del signore
feudale) ad altri il pieno titolo, talché lacquirente potesse respingere eventuali rivendiche di terzi (per esempio i familiari, o il signore del luogo).
Sul terreno giuridico, tali esigenze erano fortemente avvertite, ma il bandolo della questione sfuggiva completamente, come mostra il fatto che i molti sussulti politici dellepoca furono spesso contrassegnati da obiettivi impropri. Senza dubbio andava ben definita la questione di chi potesse legittimamente vendere e comprare, e chi dovesse garantire gli effetti economici dello scambio. Occorreva un sistema, una cultura giuridica nuova, un potere politico "parlamentare" (cioè borghese) e nazionale (sullintero mercato nazionale). A distanza di secoli è facile cogliere lesigenza che pervase e angustiò le società (e la filosofia) inglese e francese - i paesi allavanguardia in tutto, proprio perché la struttura della produzione si era andata rapidamente rivoluzionando - fino alla restaurazione della concezione classica in materia di proprietà privata e di obbligazioni civilistiche (nonché di diritti pubblici).
Noi sappiamo quante lotte è costata la riaffermazione dellidentità tra uomo e soggetto di diritti privati, e poi, tra uomo e cittadino. E tuttavia per chiudere il cerchio del nuovo sistema bisognerà attendere il sorgere della nazione borghese, con la sua carta costituzionale e la sistematica giuridica che sta alla base del Còde Napoleon.
1.8 Ancorati alla concezione del valore delle merci, a sua volta basata sul tempo di lavoro medio, lo scambio e la retrostante attività manifatturiera e preindustriale si svilupparono, nel corso dei lunghi secoli delletà mercantile, non certamente in modo idilliaco, ma sicuramente nella forma piú umana che si conosca; tantè che lantico mondo comunale poté riempire i sogni politici dellanarchico Kropotkin.
Il produttore di manufatti era di regola lartigiano, che operava nella sua bottega e lavorava a regola darte, circondato dai suoi discepoli, che facevano presso di lui l"università" per venire laureati maestri darte. Chi commissionava un prodotto, lo pagava con il danaro proveniente da una precedente vendita, che poteva essere di prodotti agricoli, di servizi professionali o di un diverso manufatto. Raramente quel danaro veniva da uno stipendio.
Forse ha ragione Kropotkin a ritenere che siamo al punto piú alto della civiltà, nel campo del vivere sociale. Resta da vedere se il modello sia ripetibile in una fase di produzione generalizzata di merci.
Abbiamo già osservato che nellepoca a cavallo tra la protostoria e la storia del moderno mercato, lartigiano passò dalla produzione su commissione alla produzione da offrire su un mercato aperto.
Lo svolgimento logico e storico di questo passaggio fu:
a) lingrandimento della bottega, e ancora meglio
b) il mercante che acquista, prima dallartigiano cittadino e poi
c) dai contadini-manifattori del contado circostante, prodotti già finiti o
d) semilavorati, ovvero
e) gli fornisce la materia prima da lavorare e lo paga a cottimo.
Ancora oltre nel tempo
cè la manifattura, lopificio dove il lavoratore salariato - spesso una donna o un fanciullo - è piegato a muovere pesanti marchingegni.
Alla fine,
g) dopo la scoperta del motore a combustibile fossile, nasce la fabbrica, che è finanziata e diretta da un capitalista e resa viva dal lavoro operaio.
Da questo momento in poi, quella che era stata una lenta e secolare costruzione collettiva di nuove tecnologie e di nuovi assetti produttivi pare allearsi con una forza satanica, esplosa improvvisamente dalle viscere della natura inerte. Il motore sostituisce i muscoli delluomo e degli animali. Limpiego del carbone abbatte i costi calorici del lavoro e porta a sovradimensionare la fabbrica. Una tonnellata di carbone costa quanto un chilo di pane, ma sviluppa centinaia e centinaia di cavalli vapore. Inoltre luomo, una volta liberato dalla schiavitú del sudore, può piú agevolmente mettere in moto il cervello. Le tecnologie cominciarono ad affinarsi; la scienza, la moda, linventiva, il piacere di vivere mettono a disposizione della parte fortunata dellumanità nuove merci. A partire da questo momento la soddisfazione dei bisogni cresce a ritmo esponenziale. Nessun re, o potente della terra, nessuna donna idolatrata da schiere di cortigiani ebbe mai quel che oggi ha chiunque di noi, dal viaggio intercontinentale alla cura della pelle.
Questa prodigiosa rivoluzione è stata guidata - ed è guidata - dal capitalista, cioè da una persona priva di particolari qualità culturali e intellettive, e tuttavia presa dalla febbre di moltiplicare le proprie ricchezze, attraverso lavventura economica.
La storiografia occidentale ha sopravvalutato questa figura. E capitato nel corso della storia, e certamente capiterà ancora, che la spinta che viene dal basso sia interpretata da individui dotati di particolari attitudini. I coloni greci che navigavano verso occidente, alla ricerca di una nuova patria, di altra terra, di donne straniere, erano certamente guidati da nocchieri non solo esperti, ma anche avventurosi. Egualmente i germani e gli slavi, che guadavano i fiumi della piatta Europa per marciale oltre le Alpi, avevano alla testa i guerrieri piú impavidi e spregiudicati.
Oggi, dei cavalieri dindustria, rimane soltanto laspetto ingordo. Il capitalista che ci tiene il piede sul collo e centellina luso delle nostre risorse è un uomo senza qualità, che sopravvive alla sua funzione storica galleggiando impropriamente sullantico concetto di proprietà e circondato, allinterno e allesterno dellazienda, da prezzolati esperti, i quali, se non riescono a tenere alta la massa dei profitti, sono additati al pubblico disprezzo da giornalisti altrettanto ben pagati.
Bisogna risolutamente aggiungere che la fame di profitti, in tutte le parti del globo, porta codesta gente a guazzare fra i piú severi articoli dei codici criminali nazionali. Tanto che ormai soltanto gli sciocchi ignorano che il capitalismo è un nemico schierato della vita, dellambiente e di ogni morale umana. Un sistema da lottare con ogni mezzo.
È di particolare evidenza che, nellattuale assetto culturale e sociale, luomo si sottopone alla fatica e, se è un proletario, a faticare sotto il comando altrui, per ricavare una contropartita in danaro con cui soddisfa i suoi bisogni, siano essi elementari e minimi, siano essi vistosi e opulenti. Il bisogno ci piega ai lavori piú ingrati e può piegare anche a quelli piú pesanti e nocivi. Ma è altrettanto evidente che è esso stesso un bisogno umano, per cui vengono a trovarsi in una situazione felice coloro a cui piace il lavoro che fanno.
Si può immaginare un mondo in cui tutti facciano un lavoro piacevole e in cui possano regalare al prossimo i beni da loro prodotti in una giornata di piacevole e soddisfacente fatica?
Considerati gli enormi progressi materiali che ho visto realizzati nel corso della mia vita, non mi sembra di poter scartare in partenza tale ipotesi. Insegniamola pure, è unambizione bella e cristianissima; ma siccome, nel frattempo, bisogna continuare a pagare Telecom e lEnel, credo sia giusto dire che continuiamo a lavorare perché costretti.
2. Légalité
2.1 In Grecia, a Roma e in tutte le moderne società di tipo mercantile e proprietario la società civile e lo Stato operano su due piani diversi.
Il protagonista della civiltà è lo scambio, meccanismo autonomo della società civile che ha reso piú agevole la specializzazione professionale e in generale la divisione del lavoro. Attraverso una specie di selezione naturale fra le diverse possibili opzioni, svoltasi nel lungo periodo secolare, gli uomini delletà rinascimentale approdarono al mercato, lasciandosi alle spalle le forme politiche e gerarchiche di produzione e distribuzione, e hanno impostato un tipo di società che è lopposto di quella feudale, piuttosto simile a quella dei greci e dei romani.
Il mercato presuppone e pretende individui privati e liberi. Chi compra e chi vende deve essere un proprietario, il primo del denaro, il secondo della cosa, in modo da garantirsi reciprocamente.
Anche il principio della proprietà privata appartiene alle lunghe e spontanee creazioni delluomo nella storia.
Sul terreno dellantropologia economica, la proprietà è una funzione della penuria. La regola (o principio vitale dellingiustizia) sulla quale si fonda la proprietà è legata - secondo noi - alla riproduzione del ciclo produttivo ed è connessa con la nascita dellagricoltura e dellartigianato, quando nellarea mediterranea lorganizzazione individuale della produzione ebbe la meglio sulleconomia di villaggio che aveva caratterizzato gli imperi fluviali.
Con la produzione agricola e artigianale sorge automaticamente il problema della riproduzione. Infatti quasi sempre, e specialmente nel caso del grano e dellallevamento, cè antagonismo tra il consumo attuale e la conservazione del capitale occorrente per la riproduzione ciclica. Si può immaginare che scaturisca da qui una specie di selezione naturale dei piú adatti, in sostanza di quei privati che, non avendo la necessità di razionare il consumo, potevano conservare intatto il grano da seminare e i nati da allevare. I ricchi insomma.
Nasceva parallelamente la soggezione di chi sera mangiate le sue sementi. A questi non rimaneva che darsi servo, in tal modo identificando un ruolo che in seguito sarà esteso agli schiavi, ai nemici vinti. Egualmente, lartigiano che produce per il mercato può continuare a farlo soltanto se ha riserve alimentari per sopravvivere e materie prime (capitale) da lavorare. Altrimenti è costretto a vendere il suo tempo di lavoro e la sua professionalità. La dura legge, in base alla quale sopravvive il conservatore piú accanito, crea il proprietario e fa di costui lorganizzatore della produzione.
La fonte di tutto ciò non sta nel potere dello Stato, né lo Stato è il gestore dellapparato, come lo era stato in Egitto e negli altri imperi fluviali. Lo Stato è la
sovrastruttura giuridica della proprietà, ma non la proprietà. Anzi, lintervento dello Stato nella proprietà privata, se promana da una necessità suprema, è sempre inteso come una violenza.
Ovviamente la proprietà si conserva e si difende giuridicamente e militarmente attraverso lo Stato, che è dominato dalla classe dei proprietari ed è il tutore dei proprietari. Ciò avviene nelle città della Jonia, in quelle dellEllade e della Megale Hellas. Dal Sud italiano, il sistema si allarga a Roma, e le legioni romane lo portano in Iberia, in Gallia, nellAfrica settentrionale, nelle regioni danubiane. Poi, alla fine del Medioevo, lEuropa impone ed esporta in tutto il mondo il modello privatistico a base classista: i ricchi - i proprietari della terra - e i poveri, i quali pagano con una frazione del proprio tempo di lavoro la possibilità di utilizzare quella del ricco.
Ma oggi questo modello non ha piú alcun senso antropologico, almeno in Occidente. Infatti da oltre cinquantanni esso si è lasciato dietro le spalle la penuria, che ai fini della sopravvivenza della specie giustificava il privilegio del ricco (lapologo di Menenio Agrippa).
2.2 I principi rivoluzionari del 1789 sono i piú avanzati di una società proprietaria. Certo non mancò, fra i grandi intellettuali e costituenti del tempo, la consapevolezza del limite che la proprietà ineguale introduceva tanto nellégalité quanto nella liberté. Talché linvocazione della fraternité rappresentò il classico pannicello caldo applicato sulla ferita.
Non vè dubbio che dalle proclamazioni - e dalle conquiste effettive che le seguirono - le masse popolari trassero scarsi benefici. Ha grande rilevanza, a questo riguardo, il fatto che nellEuropa continentale la Grande Rivoluzione precedette la nascita dellindustria. Ma quando lorganizzazione di fabbrica si diffuse nellEuropa continentale, gli atteggiamenti politici della nuova classe agiata e rivoluzionaria mutarono relativamente allégalité. Ciò perché i nuovi meccanismi dellarricchimento proprietario e capitalistico fecero mutare la posizione delle classi lavoratrici rispetto alla produzione. I liberali, giunti vittoriosi alla guida dei governi, si trovarono nella pratica impossibilità di garantire ai lavoratori quei diritti che come legislatori andavano codificando e che, in precedenza, avevano sostenuto calorosamente nei libri, sui giornali, sulle piazze, sulle barricate, come agitatori.
Se, una volta al governo, il loro modo di organizzare lo Stato fu un dire e un contraddirsi, ciò merita una spiegazione, e questa oggi può facilmente essere spoglia del risentimento che ebbero a riguardo i primi socialisti, i quali, pur essi si impantanarono nella contraddizione tra il primato delle libertà individuali, proclamato nell89, e il primato del collettivo, circa lorganizzazione della produzione.
In realtà, nel giro di qualche decennio la funzione economica della proprietà cambiò radicalmente e lo Stato costituzionale entrò in contraddizione con se stesso circa la reale eguaglianza dei cittadini.. La transizione morale (o, forse, immorale) ci viene ben spiegata dalla scienza economica dellepoca, che fu concorde nellassegnare allaccumulazione dei capitali una funzione propulsiva dello sviluppo; mentre prima delletà industriale - nella fase preparatoria della Rivoluzione - predominando lagricoltura, per gli economisti non faceva eccessiva differenza se laccumulazione nazionale si concentrava in poche o molte mani. Anzi, i piú illuminati fra loro preferivano che si spandesse fra i diretti coltivatori, poiché, in mano al piccolo proprietario, la ricchezza sarebbe stata reinvestita piú facilmente che in mano al grande proprietario assenteista; e ciò poteva apparire di evidente vantaggio per la dinamica della ricchezza nazionale complessiva. Nelletà ricardiana si prese a considerare cosa decisiva che i surplus fossero appropriati (magari espropriandoli ad altri settori) dalla classe dei capitalisti industriali. Solo cosí, infatti, laccumulazione poteva essere reinvestita nel settore a piú alta produttività. In buona sostanza, la logica industriale sopraffece quella agricola. A questo punto, però, "la nazione" dell89, si tramutò in una beffa. Infatti fu un soggetto politico diffuso solo a parole, mentre nei fatti lo Stato nazionale divenne il coperchio e il garante della sopraffazione padronale e il popolo nazionale la vittima dogni forma di
ladroneria. Contemporaneamente, la fraternité, delusa, componeva canzoni per le ugole dei piú protervi rivoluzionari.
2.3 Ovviamente la nuova posizione filosofica e pratica della classe dirigente si risolse in un danno per le classi lavoratrici. Agli occhi degli economisti e degli statisti, loperaio assunse lambivalente posizione di produttore della ricchezza e di distruttore della medesima: producendo di piú, la ricchezza nazionale sarebbe cresciuta, ma consumando di piú, avrebbe ridotto la ricchezza accumulata. Insomma, la differenza tra produzione operaia e consumo operaio dava luogo ad un surplus reinvestibile che avrebbe accresciuto e migliorato la condizione della nazione. Il ruolo di dissipatore delle pubbliche risorse, che prima della rivoluzione era spettato allaristocrazia e alla corte, adesso, nel nuovo sistema, poteva toccare alle masse di infelici che si contendevano un tozzo di pane. Minore il prezzo delle sussistenze, maggiori i profitti industriali; minore il consumo delle masse proletarie, maggiore linvestimento nazionale. Ma la deminutio capitis del cittadino lavoratore incise ancora piú profondamente dove il processo dindustrializzazione era ancora in itinere.
Lindustria inglese, cresciuta senza che dovesse rincorrere nessuno tranne se stessa, era fiorita effettivamente sulla differenza tra salario e valore del lavoro (plusvalore). Sul Continente le cose andarono molto diversamente. Infatti, quando i paesi inseguitori vollero trapiantare lindustrialismo inglese, non potendo gli Stati estorcere surplus da astinenza al proletariato urbano, che ancora doveva nascere, volsero gli occhi verso altre fonti di finanziamento. E siccome in quel passaggio sarebbe stato tuttaltro che saggio tosare il commercio, giustamente considerato un preannuncio dellauspicata industria, fu messa sotto pressione lagricoltura. Ciò è particolarmente vero ad esempio in Italia, dove la Destra storica, erede della concezione cavouriana della società, che diresse lo Stato nel primo quindicennio di vita unitaria, sostenne, persino in teoria, che fosse dovere degli agricoltori contribuire piú di altri alla spesa pubblica, in quanto la rendita fondiaria era da ritenersi un di piú che veniva ottenuto a costo zero, in virtú della naturale fertilità della terra.
Nel nuovo sistema emergeva cosí una contraddizione - tuttora vigente - del tipo spartani/iloti: tra chi faceva il lavoro principale e chi gli procurava le sussistenze. Tale diade sociale sarà tipica del sistema industriale. Tra il milite della patria industriale e laddetto al vettovagliamento ci sarà non solo una funzione diversa, ma anche una qualità diversa della persona e del gruppo sociale. Tutti cittadini per le costituzioni e i trattati di filosofia del diritto, ma i cittadini ricevono un diverso trattamento economico e civile a seconda che appartengano al sistema come protagonisti della produzione del profitto, oppure come zappatori della retrovia, per lottenimento delle sussistenze dei primi. Su tale base, tutto un sistema di privilegi, o allopposto di deminutio capitis, sinfilò nella struttura reale e amministrativa della "nazione" ottantanovesca.
In linea generale, la nuova nazione industrialista organizzò lo Stato in modo che gli elementi necessari alla sopravvivenza delle masse proletarie (principalmente il grano, ma anche le altre derrate) costassero al minimo, e anche in modo che i surplus prodotti in campagna rifluissero verso lindustria senza contropartite. È ovvio che non fu facile vincere la resistenza dei contadini minacciati nella sussistenza, né quella dei proprietari, arroccatisi in difesa del protezionismo granario. È altresí evidente che non fu facile allindustria attrarre spontaneamente il risparmio agrario, nonostante gli ottimi tassi offerti dagli Stati. Ma se il consenso delle masse poteva essere strappato con lintimidazione, la violenza e la superstizione, quello della borghesia minuta bisognava fosse in qualche modo pagato; quantomeno bisognava che la borghesia si convincesse di ricevere un prezzo. Linserimento, o lo pseudo-inserimento, della conservazione agraria nel contesto nazionale fu il prezzo promesso e mai pagato dallo Stato industriale alle classi fondiarie. Questa mossa ingannò non solo chi meritava di esserlo, ma anche gli esegeti successivi, dando luogo a congetture su
alleanze tanto fantastiche quanto ideologicamente accattivanti, come in Italia il cosiddetto "blocco storico" tra i protezionisti della proto-industria milanese (gli intrallazzisti della finanza padana) e i supposti (o sedicenti) grandi proprietari meridionali, produttori di grano (che in effetti il Sud comprava prevalentemente al Nord e il Nord in Francia).
Nel complesso, al proletariato urbano e alla periferia non industrializzata fu imposto un ruolo nazionale equivoco ed ambivalente: secondo "i sacri principi" dell89, tutti i cittadini avevano i medesimi diritti; secondo la logica industrialista, il loro ruolo era identico a quello dei foederati provinciali al tempo di Roma, cioè pagare le tasse e per il resto obbedire.
La contraddizione si tradusse nellambiguità denunziata dai socialisti: leguaglianza formale nei diritti e nei doveri non economici coniugata con la piú feroce diseguaglianza nei diritti e nei doveri economici. In sostanza i diritti costituzionali - le proclamazioni egalitarie della "nazione" ottantanovesca - dettero luogo, nel settore della bassa contadinità, a nientaltro che a una nuova forma di sudditanza proprietaria, quella esotica del capitalismo industriale.
Sotto lincalzare del nuovo processo produttivo - a volte senza che vi fosse una particolare malvagità da parte dei governi, protagonisti alla fine di un fato eschileo - la nazione contadina di Mirabeau e di Napoleone cedette il posto alla nazione potenza economica di Lord Russell, di Napoleone III e di Bismark, in cui la liberté e légalité rimasero in vita soltanto per le classi a cui era possibile garantirle. Della fraternité rimarrà soltanto il fascino evocatore del ricordo e la mal fondata speranza - anarchica e socialista - della palingenesi totale.
In effetti il capitalismo industriale si configura o (uno, per il proletariato interno) come un signoraggio mediato dalle merci di massa e dal potere politico, o (due, per il proletariato esterno) come un camuffato riasservimento di tutta la campagna allimperialismo metropolitano.
2.4 In un assetto sociale, peraltro antichissimo, in cui la società civile e lo Stato si sono divisi i compiti, e soltanto ai privati spetta di organizzare e guidare la produzione, non fu la struttura produttiva "fabbrica" a definire il carattere e le qualità richieste a chi la guidava, ma furono le eredità culturali di un passato agricolo e padronale a imporre il loro pregiudizio (e pre giudizio) sociale.
Il "cavaliere dindustria", lindustriale, linnovatore, la persona che rischia, sono prodotti piuttosto scadenti dellapologetica economica e giornalistica. Al dirigente industriale non era, e non è richiesto piú coraggio e maggiori capacità di quanti occorrano per governare una nave. Invece, senza per questo accettare una sola virgola delle conclusioni morali (o immoralistiche) di Max Weber, bisogna pur dire che fu il clima del momento - o per dirla con il giudice Di Pietro, un fatto ambientale - a generare un nuovo soggetto sociale. Quanto, poi, fossero super le cellule di quei "capitani" lo si è visto in appresso, quando, superata la loro generazione, fu necessario separare la proprietà azionaria degli eredi dalleffettiva direzione dellimpresa. Ma al di là di ogni legittima polemica, lantica divisione, la separazione aquiliana e poi comunale e rinascimentale tra Stato e società civile, oggi, sotto lincalzare dellagglomerazione e concentrazione industriale, vacilla. Il mercato sincammina sul viale del tramonto. La proprietà incorporata nella fabbrica si carica di forze non piú atomistiche, diffuse a pioggia, come era stato nelle società agrarie e manifatturiere, ma diviene Sultanato, Autocrazia della produzione di merci, della distribuzione del reddito e della gestione dei surplus planetari.
Con lindustria a base planetaria finisce il cittadino. Nasce il villaggio universale dei monopoli industriali e finanziari, e con esso il mondo delle api masticatrici di cibo, o non masticatrici di cibo, a seconda che ciò sia funzionale al portentoso metabolismo dellApe Regina. Mentre lo Stato continua a svolgere la sua funzione complementare di tutore della disciplina servile, la società civile si scioglie e lautonomia privata si volatilizza.
I giuristi "sentono" il decadimento in modo piú immediato. Sono, infatti, persino divertenti le contorsioni a cui sono costretti nellingrato tentativo di dimostrare che appartengono al diritto privato e che sono manifeste espressioni dellautonomia privata.
i rapporti correnti tra la persona qualunque ed enti del tipo banche, assicurazioni, case automobilistiche, gestori delle reti telefoniche, ecc., che si comportano da enti di fatto sovrani. Definire come contratto privato un siffatto rapporto è solo una panzana. Tecnicamente, esso è nientaltro che diritto amministrativo (che amministra dimperio i rapporti con il suo amministrato) del monopolio sé dicente privato.
2.5 Nella fase in cui la società occidentale rimase nel quadro della piccola produzione mercantile - un periodo tuttaltro che breve, perché si estese a dir poco dai tempi di Dante alla conquista dellIndia da parte di un esercito assoldato da privati capitalisti - la società civile organizzò la produzione secondo regole che essa stessa elaborava (non sensa contrasti) mentro lo Stato svolse il ruolo di mediatore fra privati interessi contrapposti, spingendosi fino al punto di contrastare, combattere e battere il potere economico e le prepotenze (pubbliche e private) della nobiltà; in sostanza, operò in modo da allentare e diluire nel tempo lo scontro sociale. Certamente i poteri forti, che sempre ci sono stati, influivano sullo Stato, ma non fino al punto da sovrastarlo permanentemente. Oggi siamo allautocrazia del capitale. Un governo, un parlamento che lo non serva fedelmente viene rapidamente annientato dai mass media che esso - ed esso soltanto - controlla; e pretende mano libera nel controllarli. A questo punto, difficilmente si può parlare di società civile, di diritto civile e, come vedremo, meno che mai di un jus gentium, di un diritto che possa essere invocato da tutti gli uomini. E lo si vede. Difatti il monopolio non entra in rapporti negoziali con gli acquirenti (oggi giustamente chiamati consumatori), se non apparentemente. Gestisce, invece, il rapporto fiscalmente, come un potere feudale, in quanto le sue merci non vengono scelte, ma soltanto richieste, in quanto beni e servizi essenziali al vivere civile (elettricità, automobili, telefono, gas, assicurazioni, ecc.); i suoi prezzi sono subiti, e non accettati negozialmente come si ciancia sui libri di economia, nei codici civili e nelle aule universitarie. Insomma lalta densità della divisione del lavoro si è tramutata in qualità politica del capitalista.
Lavvenire è chiaro: se non verrà bloccato, il grande capitale avrà la gestione del pianeta. Per ben due volte nella storia dellOccidente, a distanza di duemila e cinquecento anni luna dallaltra, la proprietà ha teorizzato e imposto una società fondata sul diritto. Ma lattuale agglomerazione e concentrazione del capitale ha prima svuotato la teoria e poi cancellato il fatto.
Di fronte a ciò Marx propose: nessun proprietario privato. Noi pensiamo che lassunto vada capovolto: ciascuno sia proprietario del proprio prodotto, nessuno può essere il proprietario del prodotto altrui. Insomma diciamo che, per noi separatisti magnogreci, la concezione marxista ha un primo capitolo che si ferma allabolizione del diritto (privato e pubblico) di estrarre plusvalore dal lavoro altrui.
2.6 Nel momento stesso in cui hanno conquistato il dominio sociale nei loro rispettivi paesi, i boriosi signori del capitale hanno messo in azione le fanfare liberali, innalzato gli scudi del governo rappresentativo e ottenuto pure i voti per governare. Impancatisi a arbitri dei destini della nazione, si sono rivelati statisti molto inetti, di gran lunga inferiori ai governanti dellassolutismo regio che li avevano preceduti In nessun luogo, infatti, hanno saputo (o voluto) imbrigliare la disoccupazione - uno dei quattro cavalieri dellApocalisse che scorribandano sullesistenza delluomo doggi. In Inghilterra, capostipite del capitalismo, la grande disoccupazione nacque dallappropriazione borghese dei campi aperti, con connessa fine dei diritti promiscui sulla terra, che risalivano alla prima età feudale. In tutto il resto del mondo il processo di alienazione dei produttori poveri ha seguito (e segue tuttora) un percorso diverso. E stata (ed è) la penetrazioni delle merci di massa in ogni piega della domanda a scacciare gli artigiani, i contadini, i manifattori dalla produzione. Pur causato da un solo innesco, la deflagrazione ha dato luogo a uno svolgimento politico duplice, e persino contrastante, a carico del proletariato occidentale e di quello non occidentale. I due distinti tronconi dellumanità alienata non soffrono di eguali svantaggi e di identici fati politici. Proletariato interno e proletariato esterno non sono uniti nella lotta.
E un fatto certo che il progresso tecnico e le nuove tecnologie, in mano al governo dei capitalisti, distruggono molto piú lavoro di quanto ne creino; e questo sia allinterno delle nazioni industriali sia allesterno (su base planetaria, il rapporto potrebbe essere di cinque a uno). In Inghilterra, in Francia e anche altrove, agli albori del nuovo assetto, decine e centinaia di migliaia di contadini impoveriti e sradicati si abbatterono sulla città industrializzata dando luogo a quella che un tempo veniva chiamata "la questione sociale". In appresso, sentendosi minacciato dalla rivoluzione proletaria, il capitalismo è sceso a patti con la classe operaia. Economicamente non si è avuto un generico finanziamento del miglioramento del tenore di vita, ma una spinta alla crescita interna, in modo che nuove occupazioni compensassero la disoccupazione che il macchinismo creava.
Sbaglieremmo, però, a credere che una simile operazione non avesse (e non abbia) un costo. Infatti una maggiore produzione pretende sbocchi piú larghi. E siccome non tutto quel che i capitalisti accumulano con la vendita dei loro prodotti viene speso, i nuovi sbocchi vengono allargati a livello planetario, con la conseguenza alquanto prevedibile che i produttori piú deboli venissero buttati fuori dal marcato e sradicati.
Nellultimo trentennio milioni di uomini hanno lasciato i paesi desertificati del Terzo Mondo, affrontato lunghi viaggi per terra e il mare al fine di infilarsi dentro i territori dellimpero. Sono solo le prime avanguardie delle incalzanti orde barbariche che sono pronte a scattare verso il luogo dove sventola la bandiera di un salario certo, somministrato puntualmente, come è puntuale la fame che si rinnova ogni giorno inedita, insieme allinvocazione umanissima del pane quotidiano.
Ma quanti sono i disoccupati nel mondo? Tre miliardi? due miliardi? un miliardo? Il capitalismo riuscirà a dare lavoro a tutti? Se la storia, le tendenze secolari insegnano qualcosa, bisogna dire no con fermezza.
Il nero panorama avvolge anche il futuro del Sud italiano. Anzi, specialmente questo paese ingrato a Dio e a li nimici sui; contemporaneamente: sottosviluppato ma anche inserito in unarea di alti salari. Oggi che la disoccupazione imperversa persino in paesi altamente sviluppati, come il Giappone, la Germania, lItalia nordoccidentale, è solo da cretini immaginare un allargamento del capitalismo italiano al Sud. Se e quando la Costa Adriatica lo permetterà, il Sud riuscirà al massimo a offrire sole, amanti generosi e canzonette traboccanti di passione alle nordiche tardone in cerca di peli giovanili.
Gente seria e attenta, per esempio Pierre Rochard e Fausto Bertinotti, ha sostenuto e sostiene che laumentata produttività del lavoro giustificherebbe una riduzione della giornata lavorativa; una cosa che, fra laltro, lenirebbe la disoccupazione. A richieste di questo tipo, statisti daltri tempi non osarono dire di no. Si piegarono Giolitti e Mussolini, sebbene anche ai loro tempi i capitalisti osservassero una loro Summa teologica ben diversa dallumano sentire. Solo che dopo la fine del pericolo comunista gli stracci del riformismo sono volati per aria. La tacita alleanza tra capitalismo di fabbrica, sindacato e partiti operai, di cui ho fatto cenno e che risale ai tempi in cui Marx non aveva ancora pubblicato il primo libro de Il capitale, è passata a miglior vita e giace sotto le macerie del Muro di Berlino.
Daltra parte, Rochard e Bertinotti sanno bene che si tratta di un pannicello caldo. Il socialismo di oggi e di domani ha bisogno di ben altri concetti. Le merci di massa, con i loro bassi prezzi e la loro funzionalità, hanno abbattuto ogni frontiera e, dovunque, hanno prima distrutto lartigiano, che nasceva e viveva nei pori delle società agricole, poi anche il mondo contadino, devastando tecniche secolari, senza volerle rimpiazzare. Ma la tecnica non può tornare indietro. Allora il problema si restringe a come i lavoratori dovranno gestire gli scambi di mercato e a quale funzione avrà lo Stato nella futura società civile.
3. Lo scambio di valori equivalenti
3.1 Chi ha qualche confidenza con lopera di Marx sa quanto in essa sia avvincente il discorso antropologico. La dura lotta tra una forma e laltra di produzione, lo scontro dialettico tra le classi; povertà, ricchezza, produzione, risparmio, accumulazione ne fanno una storia piú che sociale, interamente umana; delluomo che eternamente lotta con la natura e allinterno del suo stesso gruppo per dominare gli elementi vitali dellesistenza.
Dominio del processo produttivo e alienazione del produttore sono, a volte apertamente, a volte sotterraneamente, la trama di questo avvincente romanzo sulla lotta economica. In tale articolato intreccio, se la fase capitalistica della storia dei produttori corrisponde allespropriazione, il metro antropologico che Marx adopera non sta nel presente operaio o nel futuro produttore per sua libera scelta, ma nel passato, nella società artigiana, allorché il lavoratore dominava il processo produttivo e il prodotto.
Questo non significa che Marx sogni un impossibile ritorno al passato, o che mostri una sviscerata ammirazione per uneconomia ancorata alla piccola produzione mercantile.
Il produttore indipendente (lautonomo, diciamo oggi) gli serve come elemento di raffronto tra libertà economica e servitú del lavoro. Non piú di questo. Dobbiamo dire però che questo è tutto quello che cè a disposizione dellesperienza; tutto quello che lantropologo può documentare.
Manca invece nel discorso marxiano unanalisi del comunismo; sia quello passato sia quello futuro. La proposta è la rivoluzione, cui seguirà una fase transitoria connotata dallappropriazione operaia della fabbrica, strumento di produzione delletà contemporanea, e la dittatura del proletariato, cioè il proletariato al potere, che impone la sua moderna legislazione contro la rinascita della proprietà privata dei mezzi di produzione.
Il comunismo operaio sarà prima di tutto proprietà collettiva, in quanto è sullannullamento di una qualunque proprietà dei mezzi di produzione che si può fondare il lavoro collettivo e poi anche il prodotto collettivo. Un prodotto non appropriato individualmente e non scambiato per un controvalore in danaro o altro, non è piú merce. È solo valore duso.
Il comunismo è quindi una società che non appropria le merci e che conosce soltanto i valori duso, le res che corrispondono agli immensi bisogni umani.
Una società di questo tipo si è tentato di avviarla in Russia, in Cina, a Cuba, altrove, e si è rivelata, piú che fallimentare, impossibile. La burocrazia distributiva è apparsa molto meno efficiente del mercato. Labbandono dello scambio sulla base di valori equivalenti ha dato vita a macchinosi calcoli, privi di qualsiasi valore scientifico e pratico. Luomo, anziché liberarsi delleconomia politica, è divenuto schiavo di assurde mitologie economiche e di meccanismi sociali disumani. Per giunta è stato mancato lobiettivo della giustizia sociale.
Eppure limpostazione rivoluzionaria di Marx rimane saldamente in piedi. Loperaio deve divenire il padrone della fabbrica e di quel che insieme agli altri produce.
Però - aggiungiamo - questo non significherà, ipso facto, la ricostruzione della società civile. Perché ciò avvenga, ogni produttore in potenza deve divenire un produttore effettivo.
3.2 Se procediamo dallassunto che ogni individuo deve essere libero sul versante economico, non piú e non meno di quanto sia in altre manifestazioni della vita, ci rendiamo facilmente conto che la libertà di cui parliamo non è quella di scegliere un articolo di Gucci o di Valentino, ma di manifestarsi liberamente come produttore. Istanza che implica due cose: che egli sia il padrone degli strumenti impiegati per produrre e che sia il padrone del prodotto.
Un ritorno alla piccola produzione mercantile?
Nessuna ingenuità del genere, ma nonostante i recenti e meno recenti fallimenti, spetta al socialismo (a) di raccogliere listanza umana dellaequa dignitas e (b) di restituire il lavoro, il ruolo di produttori a quei miliardi di esseri umani a cui il capitalismo lha tolto. Che poi, sul piano morale, è la stessa cosa che in (a).
Il progetto socialista deve, però, farsi cauto, non può correre troppo avanti alle soluzioni che lantropologia economica ha adottato spontaneamente nel corso della vicenda storica. Deve attendere che se ne prospetti un meccanismo migliore, dopo che siano maturati nuovi modi di produrre.
Fra le soluzioni attualmente note, il mercato, la merce, lo scambio di valori equivalenti sembrano alquanto radicati per la loro efficienza e la loro equità. Varrebbe pertanto la pena di cominciare sin da adesso a discutere se e quanto disturbino lidea di giustizia sociale nellambito nazionale e internazionale.
Sebbene la produzione di merci, cioè di valori di scambio, e la distribuzione del prodotto sociale attraverso la regola del mercato siano molto meno dellauspicata libertà dal bisogno e meno della spesso invocata giustizia divina - e forse anche al di sotto di quella umana - sembrano tuttavia conferire piú libertà e assicurare piú giustizia di un Piccolo Padre socialista e di qualunque altra istituzione, sia pur essa democratica e parlamentare.
Il problema è di grandezze. Al tempo della tribú dIsraele, il buon Salomone riusciva a tener conto delle ragioni di tutti e di ciascuno. Oggi, gli uomini siamo miliardi e tutti intersecati uno con gli altri. Cosí che, persino una giustizia calibrata su territori comunali non potrebbe essere altro che meccanica: per casi tipici, per fattispecie, e molto difficilmente tagliata a misura duomo.
Il mercato non è pietoso, umanitario, caritatevole, ma prima dellinsorgere del capitalismo ha mostrato dessere a misura duomo. Niente poi impedisce che, una volta abbattuto il lavoro dipendente, la solidarietà viva e prosperi in altri momenti aggregativi.
Inoltre lo scambio di mercato è un grande fattore di collaborazione fra gli uomini e se non fosse avvelenato dagli interessi del capitale, ma disciplinato in base alle esigenze che le varie società ne hanno, potrebbe rivelarsi un salutare stimolo a competere civilmente in base alla fatica e allintelligenza.
3.3 Quindi mercato e competizione. Ma allora il socialismo dove risiederebbe? Puramente e semplicemente nel divieto di vendere e comprare il tempo di lavoro, nellabolizione del lavoro dipendente.
Il provvedimento comporta piú dun problema. Tutto infatti è facile nellipotesi che limpresa sia composta dal solo imprenditore. Il medico che gestisce da sé il proprio ambulatorio, il meccanico che manda avanti la sua officina senza che altri laiuti, non creano problemi. Ma se il medico assume uninfermiera e il meccanico un aiutante, chi dirige la baracca? Chi incassa e come si ripartisce il guadagno?
Già il diritto borghese conosce splendide soluzioni, come la società, lassociazione in partecipazione, la cooperazione, ma non sarà su questo che sincepperà il meccanismo. Le soluzioni escogitabili saranno sicuramente parecchie.
Nelle grandi fabbriche, le società di lavoratori - ciascuno dei quali prende in prestito in banca la quota richiesta di capitale(1) - possono ben sostituire lazionariato dei rentiers e degli speculatori.
Landamento positivo o negativo degli affari, il successo o il fallimento segnaleranno lottimo impiego dei fattori, premieranno i capaci e puniranno gli incapaci.
4. La sottrazione del surplus
4.1 Gli economisti usano il termine surplus a volte in un significato generico e vago, altre volte in un significato fin troppo specialistico. In questo testo surplus equivale a quanto non viene subito consumato, perché si intende risparmiare o perché una legge o altro motivo lo prescrive.
Di regola le collettività non consumano tutto quello che producono, perché altrimenti il ciclo economico non potrebbe rinnovarsi. Lesempio del grano mietuto, di cui occorre conservare una parte come semente, è quello classico, ma gli esempi potrebbero essere infiniti. Non si può produrre nuovo acciaio, se quello prodotto lo destiniamo tutto alla produzione di automobili, dimenticando che bisogna rinnovare anche le presse, i torni, le gru ecc. Quando i surplus sono capitalizzati, come appunto nel caso dei torni, delle gru, delle scorte, dei risparmi portati in banca, che continuano a produrre e a incrementare la produzione, il surplus assume il carattere di surplus permanente.
È difficile concepire una società organizzata che non produca un surplus permanente. Diventa semmai importante stabilire se la quantità del surplus tende a salire o a scendere; se se ne fa un uso intelligente o se viene sprecato; quali fini sociali si prefigge chi lo impiega, e altre cose ancora. In una società industriale evoluta, come quella occidentale, gli investimenti (anche quelli finanziati in deficit corrispondono allimpiego di surplus futuri, che in modo o nell'altro dovranno essere formati) producono di regola un costante accrescimento di surplus, come se una terra, dove si semina sempre la stessa quantità di grano, dia ogni anno una maggiore resa per ettaro. Questa prodigiosa moltiplicazione dei pani e dei pesci è opera del progresso tecnologico, che ha fatto e fa aumentare vertiginosamente la produttività del lavoro. Oggi, nei paesi sviluppati, i surplus sono cosí abbondanti che, se non fossero in parte dilapidati in consumi improduttivi e in parte deliberatamente sprecati, ma tutti reinvestiti, si darebbe luogo a una quantità di produzione talmente grande da mettere in crisi i profitti e lo stesso capitalismo.
4.2 Lespropriazione dei surplus altrui è una costante della storia occidentale. Oltre che da individuo a individuo, essa viene realizzata da collettività a collettività. In passato, le forme internazionali in cui lespropriazione sincorporava erano la guerra, la razzia, la pirateria, il colonialismo e limperialismo. Con lavvento delle merci di massa si hanno forme piú sofisticate, spesso nascoste da cortine fumogene liberiste. Se, per esempio, i concimi chimici hanno un prezzo di monopolio, lagricoltore che li acquista si troverà a cedere, spesso inavvertitamente, una quota del suo reddito e dovrà rinunziare, con pregiudizio per la sua produzione, a impieghi utili, come lo scavo di un pozzo, la costruzione di una stalla e via dicendo. Lesempio vale sia come ipotesi di espropriazione di surplus da privato a privato, sia come ipotesi di espropriazione del settore agricolo ad opera del settore industriale. Imponendo pesanti tasse ai popoli vinti, i romani non solo espropriavano i loro surplus attuali, ma indebolivano anche la formazione di quelli futuri. Spostando con la violenza milioni di lavoratori dallagricoltura alle miniere, i conquistadores spagnoli bloccarono la riproduzione del surplus agricolo permanente e portarono alla fame le popolazioni indigene, perpetrando cosí un genocidio esecrato. Gli USA sostengono in America Latina governi antipopolari e corrotti per controllarne le miniere, le piantagioni e mantenere basso il livello dei salari. Ottengono in tal modo di acquistare a prezzi bassi parecchie materie prime, le quali, una volta in mano alle grandi corporations, riacquistano interamente il loro vero valore (Osea Jaffe). In questo caso, siamo di fronte ad una doppia espropriazione di surplus, quella dei lavoratori salariati e quella dellintera economia del singolo paese sudamericano.
Il caffè costa poco sul mercato di origine, perché i contadini che lo producono riscuotono bassi salari. Le aziende monopolistiche mondiali, che ne controllano lesportazione, fanno invece guadagni favolosi. Ciò nonostante il suo prezzo continua ad essere cosí basso sul mercato internazionale che gli Stati industriali possono gravarlo di imposte, moltiplicandone a dismisura il prezzo, senza che i consumatori abbiano a lamentarsi, potendo essi comunque acquistarne tanto quanto basta a soddisfare il loro fabbisogno personale. Lo stesso discorso si può fare per molti altri prodotti, compreso il petrolio.
4.3 Come si è già notato, mentre in passato lespropriazione dei surplus passava attraverso la guerra, la conquista, il saccheggio, la brutalità, oggi pare che non sempre sia indispensabile ricorrere a forme di violenza esplicita. Molto piú spesso e molto piú facilmente che in passato, lespropriazione dei surplus è invisibile alla gente, tanto piú che i meccanismi dellespropriazione si presentano sotto laspetto asettico di normalissime istituzioni economiche: il commercio, la proprietà, la banca, lo Stato, la vendita, lacquisto, il prestito, eccetera. Queste forme silenziose - difficilmente individuabili di drenaggio delle risorse economiche - si realizzano anche nellambito dello stesso mercato nazionale. Un esempio alquanto banale in Italia è rappresentato dai cosiddetti "viaggi della speranza" dei malati meridionali verso gli ospedali settentrionali. Avendo lo Stato favorito la formazione al Nord di un apparato sanitario funzionante, con centri specialistici ben qualificati, molta ricchezza
diversamente spendibile fluisce dal Sud al Nord sotto forma di viaggi e spese di permanenza. Lo stesso discorso si deve fare per le università. Ma il fenomeno piú importante è ravvisabile nellattività bancaria. Infatti, quando sembra che le banche operanti in Meridione finanzino il commercio meridionale, in effetti finanziano le industrie settentrionali, le quali incassano subito, e senza molti rischi, il prezzo di merci che il commerciante meridionale rivenderà solo in appresso. La teoria economica afferma che il risparmio ha la funzione di finanziare la crescita produttiva, ma come possiamo ben vedere avviene spesso che uneconomia regionale, priva di industrie, finanzi con il proprio risparmio le industrie forestiere.
Non è detto che il surplus sia sempre uneccedenza che si forma dopo che sono stati soddisfatti i bisogni correnti. Anzi, di solito avviene lopposto. Ai lavoratori poveri e/o ai popoli poveri, a volte in modo palese, attraverso la violenza delle leggi straniere, altre volte in modo dissimulato, attraverso i meccanismi di mercato, viene imposto di stringere la cinghia e spesso anche di morire di fame, affinché i gruppi dirigenti possano impadronirsi di un surplus discendente dallastinenza e dalla fame. A volte le classi dirigenti di un paese arretrato, non avendo forza politica sufficiente per reprimere il popolo, ricorrono allaiuto interessato di un paese straniero, con il quale dividono il surplus da astinenza.
Fanno evidentemente male i propri interessi, in quanto lesportazione del surplus finirà con limpoverire gradualmente anche loro. Ma non è scritto da nessuna parte che le classi che detengono il potere siano in ogni caso intelligenti. Il caso del Meridione dopo lUnità politica - quella che viene equivocamente chiamata "questione meridionale" - ricade nelle due ultime ipotesi.
Questa prolissa introduzione spiega - credo - a sufficienza lo stato dei rapporti economici tra aree economiche sviluppate e aree che, venute a contatto con il sistema capitalistico, sono state costrette a recepirlo, senza però trarne alcun vantaggio, traendone anzi un gravissimo danno. Difatti, bloccato il vecchio ciclo riproduttivo dallinvasione delle merci capitalistiche e dal drenaggio del surplus sociale, hanno dovuto ridurre gli investimenti, invece che intensificarli, siccome la nuova concorrenza avrebbe richiesto. Il risultato finale del processo è un mondo di morti di fame, o come graziosamente declinano i liberali, la "fame nel mondo".
In quei paesi dove si esaurisce lantica produzione non perché nuove tecnologie stanno avanzando, ma soltanto perché le merci straniere hanno vinto la loro battaglia, sinaridisce anche la capacità di imitare la modernità altrui, in quanto si è bloccata la formazione del surplus sociale, laccantonamento di ricchezza richiesto per acquistare e impiantare una nuova forma di produzione. Quando i secchi di plastica invasero lAfrica, la conseguenza fu che si bloccò la produzione di secchi di argilla (o di legno, o di pelle), e non che gli africani impararono a produrre da sé i vasi di plastica, cosicché tutti coloro che prima producevano vasi, poi, non ebbero piú niente da produrre e oggi si ritrovano moralmente a disagio quando si confrontano con un trevigiano o un trentino, il quale lavora e produce. O quantomeno, questo sostiene.
Lesperienza secolare suggerisce che non esistono automatismi di mercato che sappiano ridare ai popoli spogliati il pane, il companatico, le scuole, le università, i centri di ricerca, laccumulazione dei profitti, presupposti dell'interno equilibrio; in sostanza che larga parte delle popolazioni sottosviluppate, non avendo piú la possibilità di comprare, né per contanti, né a credito, siano inutili al mercato e al profitto.
Che faremo a questo punto? Le annienteremo, le faremo morire, faremo in modo che scelgano volontariamente il suicidio?
4.4 Il numero ordinale che gli storici e gli economisti danno alle rivoluzioni industriali non si conta piú. La prima - quella inglese - esplose sotto la spinta del mercato mondiale che chiedeva sempre maggiori quantità di merci. La seconda fu guidata in qualche modo dai governi e pagata dalle popolazioni a costi altissimi. Essa ha coinvolto la Francia, il
Belgio, lOlanda, gli Stati Uniti, la Germania, la Svizzera, lAustria, lItalia, il Giappone, la Cecoslovacchia. Cè ancora da aggiungere quella russa, la jugoslava, la cinese, laustraliana e la sudafricana. Soltanto da pochi anni è in atto una rivoluzione industriale spagnola. Abbiamo anche gli episodi industrialisti di Taiwan, Hong Kong, Singapore, Corea. Ma due terzi del mondo sono rimasti fuori.
Domandiamo allora: nelle mani del capitalismo la produzione industriale ha lattitudine a espandersi e a diffondersi spontaneamente su tutta la faccia del globo? Certamente sí, ma bisogna chiedersi in quante centinaia di anni. E intanto chi muore è considerato uno in meno da mantenere.
In realtà, tra il passato e il presente si è verificato un cambiamento essenziale: il sottosviluppo. Il vecchio sistema industriale aveva di fronte a sé contadini poveri che disertavano le botteghe dei vecchi artigiani per portare i loro scarsi danari ai venditori di cotone stampato e di concimi chimici; adesso il mondo industriale non ha da fare alcun assegnamento sulle risorse di questo contadiname planetario.
Spesso i contadini del Terzo Mondo non hanno soldi da spendere, né per i beni secondari e neanche per i beni primari. Molto spesso non sono consumatori attuali e neppure potenziali. In termini di scheda di mercato sono zero. A questo punto, la domanda che mi porrei non è se il capitalismo si espanderà, ma se il capitalismo li assolverà dal peccato di essere nullatenenti; in termini brutali, se non li spazzerà via dalla superficie terrestre come esseri inutili in relazione ai suoi budget e ai suoi programmi.
4.5 Nella millenaria storia delluomo, lassimilazione di tecniche e tecnologie forestiere piú progredite non è mai stata facile. Anche in passato i salti tecnologici furono frequenti e spesso alti. Pensiamo, ad esempio, a quello tra italioti e greci, a quello tra galli e romani, a quello tra spagnoli e aztechi. Ancora in questo secolo, lEuropa in genere e lAfrica in genere distavano fra loro, tecnologicamente, forse tremila anni, forse piú. E i costi di ciò si vedono.
Lumanità inclina a non sopportare tali salti, cosicché spesso è finita male. Si ripensi, ad esempio, allo scontro tra romani e barbari, il quale ha travagliato, con alterne vicende, la storia dEuropa per duemila anni, da Brenno alla sconfitta dei turchi sotto le porte di Vienna.
Nella fase storica piú recente, il gap dei paesi esterni ha dato luogo al piú feroce degli scontri. Già dura da duecento anni, e ancora non si vede la fine. Intere generazioni travolte e un mondo che muore di fame proprio quando labbondanza ha finalmente trionfato. Altro che Gaio Mario e i Cimbri massacrati dalle daghe romane! Altro che Attila e i romani massacrati dalle lance degli Unni! Ogni giorno ne muoiono di fame tre volte tanto quelli che perirono ad Aix in Provenza.
Anche senza linquinamento atmosferico o lincubo di una guerra nucleare, il mondo sta egualmente morendo sotto i nostri occhi che non sanno vedere. È comunque in atto una corsa terribile, che ha per posta la vita, tra Occidente, che invade e porta dovunque le sue merci di massa, e il mondo esterno che annaspa alla ricerca della via dellindustrializzazione, cioè della libertà.
Il meccanismo della guerra commerciale, che usa le merci di massa come larma finale della distruzione, è alquanto semplice da descrivere sulla carta. La divisione del lavoro produce labbassamento dei costi di produzione e prezzi vantaggiosi sia allinterno della società avanzante sia presso la società penetrata.
Il minor prezzo occidentale colpisce il produttore straniero dellidentica merce, per esempio il vecchio fabbro o la vecchia tessitrice, che, se possono, cambiano mestiere, ma se non possono, restano privi di lavoro e di reddito.
Ma lindustria occidentale porta anche bisogni nuovi. Perché il mondo esterno possa accedervi, non avendo merci da dare in cambio, deve sacrificare il capitale. Il caso di chi, nel Sud dItalia, vende la poca terra ereditata dagli avi per far studiare il figlio a Roma, è un
esempio alquanto frequente di drenaggio dei surplus regionali. Lesportazione di valori monetari, non compensata da un rientro monetario, a sua volta frutto dellesportazione di merci, ricade immediatamente sul ciclo riproduttivo e subito dopo su quello produttivo, come vediamo un po dovunque.
Se a ciò si aggiunge il ben piú costoso trasferimento dei surplus e persino del capitale storico, è facile vedere come sinaridiscano il lavoro e la vita, fino alla totale sterilizzazione di una nazione.
Intorno a questa manipolazione della naturale vicenda storica sprofonda nel fango, in cui merita di stare, quellautentica panzana bancaria e londinese, nonché specchietto per le allodole, che ancora sinsegna nelle nostre università, circa i vantaggi comparati dello scambio fra due nazioni (non si è mai capito bene se allo stesso livello di sviluppo, o no), e per illazione, circa la libertà internazionale di commerciare.
Il libero mercato è una bellissima cosa, come sono belli i duelli tra i cavalieri antichi finché si battono Tancredi e Argante. Ma se per caso ci capita di mezzo Don Chisciotte, succede che ci mettiamo a ridere. O forse soltanto a sorridere, ma con le lacrime agli occhi.
4.6 Intanto lOccidente industriale esporta senza tregua. Crede di ricavarci un serio vantaggio e immagina che possa continuare per sempre. Non si accorge invece che tale eccesso di esportazioni, che altrove hanno come contropartita la vita, falsifica anche la struttura dei suoi rapporti interni e sconvolge il percorso della sua storia sociale ed economica.
Lagglomerazione e laccentramento del capitale industriale stanno minando lesistenza del pianeta e stanno devastando la società civile.
Un atto della ragione potrebbe risparmiare lutti senza fine. E tuttavia sono scettico circa la buona volontà degli uomini. Soltanto quelli che hanno perduto tutto, forse, oseranno tentare vie nuove. Anzi antiche, se vogliamo capire la lezione che la storia sociale ci ha impartito.
Noi, popolo meridionale dItalia, siamo fra quelli che hanno perduto tutto. Ma non amiamo crederlo. In realtà lultimo legaccio italiano sono gli stipendi statali. Quando anche questo si sarà definitivamente rotto, niente terrà piú lItalia sulle gambe. E solo allora potremo renderci conto quanto fosse saggio e preveggente Francesco II, "lodiato Borbone", allorché profetizzò che gli altri italiani non ci avrebbero lasciato neppure gli occhi per piangere.
4.7 Le immani distruzioni provocate dal libero mercato internazionale nei paesi in ritardo storico, limpossibilità teorica e pratica di una leale concorrenza tra paesi a diverso grado di sviluppo, contemporaneamente alle esperienze positive fatte dalla Germania, dagli Stati Uniti dAmerica, dal Giappone e da numerosi altri paesi, che poterono crearsi un apparato industriale nazionale solo difendendo il mercato interno dalla "liberalissima" penetrazione delle merci inglesi, ci inducono a immaginare che i paesi deboli debbano adottare, a difesa dei propri surplus e delloccupazione, un vigile bilanciamento alle frontiere.
Lo stesso dicasi per le regioni che, pur inserite in un contesto nazionale sviluppato, restano in forte ritardo storico, come il caso del Sud italiano. Il surplus di tali regioni e paesi è drenato attraverso i naturali meccanismi di mercato. Gli stessi meccanismi di mercato uccidono sul nascere qualsiasi tentativo concorrenziale che parta dallarea in ritardo storico. Ciò mentre la disoccupazione impazza. In tali casi luscita dal mercato nazionale appare unesigenza elementare.
5. Mors tua vita mea
5.1 A volte i percorsi della storia sono obbligati. Il Meridione non avrebbe potuto sottrarsi allabbraccio mortale dellunità nazionale, quandanche avesse letto nel suo futuro le sciagure che essa avrebbe poi provocato. Lazione risorgimentale era, infatti, partita con levidente obiettivo di inserire la penisola italiana nei travolgenti cambiamenti economici che durante il sec. XVIII e la prima parte del successivo avevano coinvolto vantaggiosamente i principali paesi di Europa, mentre gli altri cercavano di imboccare la strada giusta per seguirli. Il rivolgimento aveva avuto e aveva carattere avvolgente; riguardava infatti lagricoltura, la manifattura e lartigianato, i trasporti, i servizi e le professioni.
Quasi tutti gli studiosi contemporanei convengono sul fatto che fu il commercio inglese a innescare la serie dei cambiamenti e il mutamento storico che portò alla rivoluzione industriale.
Era avvenuto che, a partire dalletà delle scoperte geografiche, la marineria inglese, avventuratasi come le altre su tutti i mari del mondo, una volta messa di fronte a rotte lunghissime e pericolose, era stata capace di rivedere e migliorare la robustezza, la sicurezza, la velocità, il tonnellaggio delle navi, nonché la professionalità degli equipaggi, raggiungendo risultati grandemente positivi.
Divenuta, la sua marina, signora incontrastata di tutte le rotte, lInghilterra aveva saputo altresí rivoluzionare loggetto stesso dei suoi scambi con il mondo.
Da quel momento il suo imperialismo marittimo cambiò segno. Dal bottino, dal saccheggio, dalla speculazione, dalla tratta, passò a inseguire un nuovo progetto, il cui fine principale era di vendere alle colonie i manufatti della madrepatria. Come le onde di uneco, lo sviluppo dei traffici si ripercosse su tutta leconomia nazionale sollecitando lo sviluppo della manifattura; la migliorata capacità generale dacquisto incentivò gli agricoltori a produrre per il grande mercato. Lagricoltura si trasformò; perse il suo assetto medievale di produzione per lautoconsumo familiare dei contadini e il consumo della corte baronale, per rivolgersi alle produzioni da smerciare.
In un mercato bramoso di merci, la manifattura e lartigianato procedettero verso lindustria moderna, il cui carattere essenziale e rivoluzionario tuttora risiede nella sostituzione della fatica umana e animale con il motore.
Il risultato della rivoluzione fu che i prezzi delle merci, una volta che fu lindustria a produrle, si abbassarono incredibilmente. Beni che prima erano inaccessibili alla maggior parte dei lavoratori, dopo tale trasformazione, entrarono nel consumo quotidiano delle masse lavoratrici.
Lesempio era grandioso e quei paesi che avevano già un assetto preindustriale si posero ad assimilarlo. Nasceva su questa spinta la "nazione" ottocentesca, lo Stato industriale.
I mutamenti che si verificavano dovunque in Europa toccarono anche le varie parti dItalia. E sempre piú diffusamente gli italiani si resero conto che il processo di rinnovamento avrebbe dovuto coinvolgere le energie dellintero paese, allo stesso modo che ne coinvolgeva le speranze.
5.2 Non cè libro di storia il quale non mostri, al 1860, unItalia in enorme ritardo non solo rispetto allInghilterra, ma anche alla Francia, al Belgio, allAustria, alla Germania. Anche oggi lItalia presenta identico scarto, nonostante lesistenza di un enorme potenziale industriale che la colloca nel primo cerchio del mondo industriale. Come lo scarto attuale, anche quello iniziale era accettabile.
Diversamente da quello che fu lopinione dallora, lItalia del 1860 possedeva già le potenzialità per un buon decollo produttivo; e questo puntualmente si ebbe, solo che invece di
provocare lunificazione di un paese diviso ma uniforme, condusse allirreparabile diversificazione in due assetti in fuga prospettiva verso sfondi opposti.
Loriginalità dellItalia è in questa apparente stranezza. La stranezza, nel caso, si chiama colonialismo interno.
Andare alle sue cause, non è complicato. Non diversamente da altri paesi europei, lItalia potrà pure avere i caratteri di una nazione e tale apparire allesterno; ma è una nazione che risulta in larga parte dalla somma di ottomila municipi, di venti regioni e di centinaia di sottoregioni. Questa sommatoria non è il riverbero delle differenze etniche tra Nord, Sud e Centro, tra magnogreci, etruschi e galli, tra influenze germaniche, bizantine e arabe; è invece leredità di una storia originale e per molti aspetti splendida, di una cultura politica municipalisticamente ingorda, particolaristicamente vanitosa, inguaribilmente antagonistica. Fu abbastanza naturale quindi che, una volta unificato il paese, nello scontro soccombesse proprio la parte politicamente meno rinascimentale e municipalista, il Meridione, il quale presentava un grande corpo peninsulare e un grande corpo insulare, con due sole città capitali. Ma né a Napoli fu consentito di rappresentare nel nuovo Stato lintero Meridione - la questione meridionale comincia da qui - né i municipi meridionali difesero la primazia di Napoli; che anzi fu quella loccasione attesa per sottrarsi alla sua egemonia. Lo stesso avvenne in Sicilia, per Palermo.
Allora come oggi, lItalia difettava di qualcosa che somigliasse a Parigi, Londra, Berlino: una capitale ingorda, capace di sovrastare la mediocre ingordigia delle sue vanitose città e delle sue arroganti regioni. Né gli sforzi del ceto politico, dal primo Savoia a Mussolini, per far di Roma una capitale effettiva, hanno avuto - tranne che la cinematografia - altro esito che quello dingolfarla di burocrazia.
Sulla disuguale ingordigia municipale è cresciuto un doppio paese. La storia dellItalia unita è intessuta di flussi visibili e invisibili di ricchezza che, per i primi cento anni, hanno viaggiato da Sud a Nord alla luce del sole e negli ultimi trenta nelle fosche tenebre della libertà capitalistica. Nel corso dei decenni la disorganicità del movimento si è andata modellando, fino ad assumere la forma di uno scambio diseguale tra una campagna, che diveniva sempre piú colonia, e una città che diveniva velocemente metropoli. Non è assolutamente un caso che nella stesso arco di tempo Napoli ha raddoppiato i suoi abitanti, mentre Milano è cresciuta decine di volte.
Da campagna pagante, il Meridione è passato alla condizione di periferia farisaicamente assistita. Ciò parrebbe in perfetta sintonia con il rapporto determinatosi in tutti i paesi industriali, i quali sovvenzionano a fini di tranquillità sociale la propria sovrappopolazione agricola, ma è invece il prezzo che i monopoli ambrotaurini pagano alla classe ascara.
5.3 Nel 1860, né il Sud né il Nord erano industriali. Solo alcune città (Palermo, Catania, Reggio, Napoli, Caserta, Salerno, Bari, Torino, Biella, Genova, Milano, Brescia, Livorno e forse qualchaltra) avevano raggiunto la fase preindustriale, o comunque producevano in un quadro di economia prevalentemente non naturale.
Ma non è vera neanche la proposizione opposta: il Nord agricolo e il Sud industriale.
Nel 1860 la forza agricola del Nord appariva essere la seta. Ma era soltanto apparenza. Infatti larrivo della seta giapponese sul mercato europeo, proprio negli anni dellUnità, mise a terra le regioni seriche, a partire dalla Lombardia.
Il Sud agricolo non era certamente piú avanti, ma passò rapidamente in testa, in ciò favorito dalla legislazione liberista imposta da Cavour. A partire dal regno di Carlo III, le colture dellolio, del vino e degli agrumi si erano inserite in uneconomia a forti sopravvivenze feudali, conquistandovi spazi variamente consistenti nelle varie regioni, ma specialmente in Puglia. Tali produzioni davano luogo a un notevole prodotto netto già nel sistema borbonico, ma per il nuovo Stato si trattò di uneredità decisiva, in quanto le
esportazioni meridionali in Francia e altrove lo misero nella condizione di pagare lenorme debito estero ereditato dal Piemonte e di salvarsi dalla bancarotta internazionale.
Tutto ciò non significa che nel 1888, quando quella fase espansiva fu interrotta, il Sud avesse camminato piú speditamente del Nord. Infatti, nel corso del precedente trentennio, i surplus agricoli meridionali - piú un surplus fiscale da astinenza - avevano risalito la penisola ed erano stati spesi (o sprecati) nellarea tosco-padana e a Roma.
Il paese magnogreco aveva pagato il contributo richiesto dallUnità, ricevendo in cambio soltanto un sistema ferroviario e stradale proiettato su Roma e Bologna - che quindi non gli serviva - mentre non aveva avuto un sistema portuale, che gli sarebbe servito.
5.4 Intorno al 1890 partí lindustria padana, con Milano, Genova e la Spezia (perfidamente contrapposta a Napoli e Castellammare), e lisolato episodio di Terni al Centro, come punti di riferimento. Nel decennio successivo fu decisa a tavolino e finanziata la partenza di Torino.
Il nuovo capitalismo padano, che da allora domina il popolo italiano, nacque e fu allevato in un clima parecchio inquinato, con luso quasi sempre intrallazzistico della spesa pubblica e con larrembaggio bancario, a cui la borghesia napoletana e siciliana non ebbero il modo di partecipare.
Lo spostamento di surplus dallagricoltura verso i profitti leciti e illeciti della borghesia affaristica tosco-padana, piú vicina al potere governativo, fu veramente pesante se rapportiamo lentità dello scippo alla condizione delle campagne. E per giunta uno scippo ingiustificato, un autentico spreco di sudore collettivo, perché, fino al 1950 circa, lindustria nazionale non seppe uscire dalla condizione di parassita del popolo nazionale, costringendo lo Stato a rifinanziarla ab imis almeno in tre alte occasioni: nel 1915/1918, nel 1929/1936 e nel 1946/1952.
Le forme di protezionismo richieste dal sistema industriale italiano e il numero dei decenni che furono necessari prima che esso potesse competere a livello internazionale (ancora nel 1950, la piú importante esportazione italiana erano gli agrumi) hanno pochi confronti in Occidente. I costi che la nazione pagò furono proibitivi. Con questa differenza, però: che al Nord tornavano sotto la forma di nuove occupazioni, sia pure supersovvenzionate, mentre al Sud non tornavano affatto.
Quello dellindustria parassitaria è stato il peso piú gravoso che il paese megaellenico ebbe a sopportare dal 1890 al 1955 circa. Il parassitismo industriale ha letteralmente assassinato il paese magnogreco, sia per laspetto economico sia per laspetto sociale.
La determinazione dei gruppi industrial-finanziari padani, volta a impedire un qualunque diverso assetto del Sud, si rivelò insormontabile e capace di imporsi allo stesso governo nazionale allorché, in pieno boom economico, sul principio degli Anni Sessanta, la Confindustria minacciò di ritirargli la sua fiducia sol che si fosse fatto qualche passo concreto in direzione della ventilata industrializzazione meridionale.
Quella determinazione ha bloccato e sterilizzato lultima borghesia attiva esistente al Sud - il famoso "cimitero dindustrie" - e oggi, quandanche ci fossero i fondi, il Sud non avrebbe piú gli uomini, il personale per uniniziativa capitalistica che non fosse mafiosa.
In soli ventanni, dal 1860 al 1880, lo Stato nazionale e cavourriano riuscí a trasformare un popolo di artigiani e contadini, senza segni di disoccupazione, in un consistente esercito industriale di riserva che ha espresso due generazioni di emigranti e due generazioni di fanti per le due guerre imposte al Sud dal capitalismo padano.
La mancata industrializzazione e lumiliazione di lavorare fuori della propria terra sono, per i produttori meridionali, linterfacciale e sinistra sagoma dellItalia Una.
In verità, Una e bina.
6. Esercito industriale di riserva per amor di patria
6.1 Nel quadro dinsieme che ho tentato di dipingere, il Sud dItalia ha una posizione oserei dire divertente. È un paese ricco che produce poco o niente. Il perché e il percome è una frittella fritta e rifritta, praticamente immangiabile.
Volendo aggiungere ancora del sale, si può dire che la situazione attuale è quella di un paese che ha poco meno della metà del reddito pro-capite lombardo, cioè uno dei piú alti del mondo, ma non riesce produrre onestamente in termini reali il 12 o 13 percento di quel che consuma, se non vogliamo mettere in conto una posta consistente del reddito che proviene dal narcotraffico. Quanto poi essa lo sia, sarà difficile stabilire fin quando la Banca dItalia non ce lo chiarirà. In verità sarebbe di grande importanza sapere se dette entrate si disperdono in privati consumi o vanno a sostenere la borsa di Milano e la grande finanza.
Il resto del reddito meridionale viene dai trasferimenti statali nel settore del pubblico impiego e dei pubblici servizi. Questi, a loro volta, consumano prodotti altitaliani ed europei, intermediati sul posto da un pletorico settore commerciale, il quale, insieme allaltro terziario, si ritaglia una fetta del valore della produzione reale padana.
E qui viene il ridicolo. Questo paese inerte e appassito possiede anche e non utilizza, ma regala al resto dItalia e dEuropa, una classe lavoratrice di primo livello; dei produttori che risultano validi nei paesi piú altamente industrializzati.
Basterebbe soltanto che quattro milioni di disoccupati muovessero, comunque, le braccia qualche ora al giorno per ottenere - forse - oltre l80 percento del fabbisogno nazionale meridionale (in termini reali). Ma né San Gennaro, né Santa Rosalia e neppure San Nicola vogliono fare il miracolo. Le braccia restano conserte. Ovviamente per la gloria dItalia, al fine di contribuire "passivamente" al buon andamento dellazienda-nazione.
Il capitalismo made in Italy cosí ragiona e vuole, e cosí è. Daltra parte - se ne accorse Vincenzo Cuoco due secoli or sono - qui al Sud, le politiche passive incontrano parecchio favore.
6.2 Il popolo meridionale è esercito industriale di riserva per amor di patria. Se e quando tale amore finirà, il Sud dItalia avrà una sola possibilità o potenzialità: trasformare lesercito industriale di riserva in produttori di valori. Non trattandosi dei messicani descritti come sonnolenti dalla cinematografia americana, la cosa sarebbe altamente positiva. Non bisogna dimenticare infatti che questo popolo di addormentati ha contribuito consistentemente alla fortuna degli USA, del Canada, dellAustralia, del Belgio, della Francia, della Germania ed è stato decisivo per quella dellAltitalia.
Ma, per rendere attuale ciò che solo è potenziale, la condizione sine qua non è la separazione del paese meridionale dal resto dItalia, o meglio la sospensione dellunità statale sabauda e scalfarista per circa un quindicennio.
Un passaggio difficilissimo, frenato comè dallascendente politico che hanno nel paese megaellenico la classe degli stipendiati e la mafia. È ben noto infatti che luna prospera sulle elargizioni statali e laltra si prefigura buoni subappalti, essendo assolutamente incapace di vivere di luce propria.
6.3 Nel Sud la borghesia attiva è stata sterminata; i capitani meridionali dindustria vivono solo nei vaneggiamenti del confindustriale Abete. Pertanto luscita dal sistema italiano e dal mercato mondiale comporterà una diversa direzione economica.
Se al Sud rivoluzione ci sarà, essa sarà socialista. Semmai il problema è che essa non porti a rifondare lAlbania da questaltra parte del Canale dOtranto. Centrarla nella società civile anziché sui compiti dello Stato, sarà il vero problema. Tanto piú che i paglietta, i maestri di scuola e la mafia vorranno avere la loro parte. La storia si ripete e il Risorgimento insegna.
7.0 La nazione funzionale
7.1 Non sarà sfuggito al lettore che in precedenza abbiamo sostenuto due tesi fra loro contrastanti: nel paragrafo 1, la divisione del lavoro sulla base delliniziativa individuale e del mercato, e nel paragrafo 4, la difesa dei mercati nazionali, in funzione del trattenimento del surplus sociale, e delloccupazione.
Il contrasto è in parte reale. Infatti la divisione del lavoro ha come suo necessario correlato la libertà di mercato, o piú precisamente dei mercati dei singoli prodotti. Nel mondo in cui viviamo ciò corrisponde a industrie differenziate al massimo grado, le quali per giunta possono prosperare soltanto se hanno una clientela vastissima; in alcuni casi estesa allintera popolazione mondiale (es., il software informatico).
Questo carattere strutturale dellodierna divisione del lavoro porta a due risultati: da una parte allincredibile progresso materiale che lOccidente va registrando da 150 anni, dallaltra allindustria oligopolistica e monopolistica.
La critica socialista al capitalismo contemporaneo si è di solito appuntata sullaspetto della concentrazione. E non cè da darle torto, in quanto la pratica monopolistica, oltre a presentarsi come una esigenza della divisione del lavoro, è il piú delle volte frutto dellinclinazione capitalistica a non aver concorrenti nazionali e internazionali; come dire lindustria si fa impero planetario per settori commerciali (esempio a tutti evidente, i rasoi da barba).
Ma cè una seconda critica da fare. O meglio, cè da mettere in risalto un altro carattere strutturale dellindustria. Per il fatto che un motore, dallingombro relativamente modesto, sviluppa la potenza motrice di decine e centinaia di migliaia di uomini, lindustria si agglomera e si localizza in luoghi ristretti. Una sola fabbrica di cotonine realizza oggi la produzione che due secoli orsono si poteva ottenere dal lavoro di milioni di telai, di tessitori e filatrici sparsi per il mondo. Qualche migliaio di operai, residenti in un solo villaggio, hanno preso il posto di milioni di case contadine. Vogliamo dire, in buona sostanza, che cè un problema geografico del lavoro; e cè anche, di conseguenza, un socialismo geografico, o del sottosviluppo, il quale promana da istanze politiche diverse da quelle che emergono nelle aree industrializzate.
Per molti aspetti le nazioni industriali odierne - le aziende- nazione - che gareggiano fra loro e a piú riprese si fecero guerra per gli sbocchi, a ben guardare altro non vogliono che la massima agglomerazione industriale nazionale, cosa che si traduce non soltanto in profitti, ma anche in occupazione operaia, e conseguentemente nel consenso politico, del quale - fin oggi - nessun capitalista è riuscito a fare a meno.
Il mondo che il sistema dellindustria si era lasciato alle spalle aveva un altro impianto. La manifattura seguiva la capillare diffusione della produzione agricola e ogni villaggio distribuiva la sua popolazione fra due attività; cosa dai profondissimi riflessi culturali.
La sua fine ha provocato, e alimenta, una spaccatura sociale ben maggiore di quella che si ebbe nel secolo scorso con la formazione del proletariato industriale, nonché sofferenze piú vaste di quelle connesse al lavoro estraneato. Nel momento stesso che il commercio mondiale fondava il sistema mondo, la separazione geografica fra produzione agricola e produzione manifatturiera faceva sorgere la divisione tra produttori e non produttori, tra utili e superflui; gli uomini assegnati a due livelli umani, a due specie, una trionfante e una morente.
Pochi luoghi producono; in ogni luogo si consuma. Ma per consumare bisogna pagare con altrettanta produzione. (Se fosse vero che si paga con moneta, qualunque Stato ne stamperebbe a volontà. Ma tale privilegio apparteneva soltanto agli USA.)
Chi non produce non compra, chi non compra muore. Insomma è nato un imperialismo della piena occupazione che simpone attraverso le artiglierie delle merci di massa e dei loro prezzi bassi, il quale riconosce diritto alla vita soltanto a coloro che possono pagare in contanti.
Fuori del sistema si estende il cimitero tricontinentale che seppellirà intere razze umane. In un mondo che si fa in quattro per salvare dallestinzione le foche monache e laquila reale è veramente stomachevole (o forse è politicamente naturale) che soltanto pochi facciano caso al problema.
Lalta produttività del lavoro ha messo in crisi epocale la bassa produttività del lavoro, mentre il meccanismo di mercato, che dovrebbe premere sulla bassa produttività, nel senso di spingerla verso lalto - allimitazione - non funziona, in quanto lapparato produttivo dellindustria occidentale è in condizione di appagare in ogni momento la domanda effettiva mondiale.
7.2 Ragionando in termini delleconomia volgare si tratterebbe di scegliere (politicamente o religiosamente) se salvare la capra- produttività o i cavoli-lavoro umano.
Ovviamente una scelta del genere è un mero gioco, unutopia che volentieri lasciamo a Michel Rochard e a Giorgio Ruffolo. Nella vita effettiva, non esiste.
Chiediamoci invece cosa fa una famiglia contadina priva di capitali, i cui membri sono tutti disoccupati, o cosa fa una nazione sconfitta, invasa e senza altra risorsa che le braccia dei superstiti. Risposta: per prima cosa si chiude nel suo campicello, utilizza le braccia disponibili fino allo spasimo e cerca di produrre le sussistenze necessarie per mantenere tutti in vita. In secondo luogo, non acquista allesterno manufatti o lavoro. Cerca di far da sé, alla bene e meglio, i lavori agricoli, e sindustria a produrre qualche manufatto.
Appena la famiglia (o la nazione) si è un po assestata e si determina uno spazio lavorativo libero, viene introdotta una seconda attività, che è commerciale; che diventa, cioè, la nuova base delle relazioni di scambio.
Se questa attività frutta, è allora possibile che si rinunci piú vastamente allautoproduzione, per destinare un tempo maggiore alla produzione per lo scambio.
In situazioni simili è chiaro (forse non tanto agli economisti- Cariatidi) che la prima conquista (di ricchezza consumabile) sta nel non rimanere inerti, nel produrre da sé qualcosa. Anche se allesterno, nel mondo degli scambi, quella cosa costa un minor tempo di lavoro, non è un guadagno comprarla. Infatti lacquisto comporta che il disoccupato stia con le mani in mano.
Per i paesi poveri la prima conquista di ricchezza consiste nel mettere comunque in movimento tutta la risorsa lavoro disponibile. Ciò equivale a regolare autoritativamente gli scambi internazionali in funzione del pieno impiego nazionale. Se un operaio del paese A produce una sedia in tre minuti di lavoro, mentre un operaio del paese povero B impiega unintera giornata per lo stesso risultato, al paese B conviene comunque tenere attivo il proprio operaio, anziché dar lavoro alloperaio straniero. Questo fino a quando in B esisterà disoccupazione.
Soltanto partendo da questo momento la teoria dei vantaggi comparati potrebbe - forse - avere un qualche senso.
Ogni ragionamento pratico - come dovrebbe essere ogni ragionamento economico - viene costruito avendo come punto di vista un interesse. Se il punto di vista non è il profitto del capitalista o - forse è piú giusto dire - la crescita squilibrata allinfinito e a qualunque costo, ma la vita (o per dirla in termini economici, la crescita equilibrata), allora è consequenziale combattere il principio falsamente liberale della piena libertà dei mercati, che
alla distanza epocale ha portato alla distruzione della risorsa principale, rappresentata dalluomo-produttore.
Per un diverso aspetto, lesistenza di nazioni che stanno a un diverso livello di sviluppo non può - miserabilmente - essere combattuta con i cosiddetti aiuti allo sviluppo. A prescindere dal fatto che si tratta di autentiche buffonate, deve essere ben chiaro che il meccanismo è costosissimo e, per tal motivo, è risultato fruttifero soltanto negli USA (la famosa operazione Tennessee) e recentemente in Germania.
Ma USA e/o Germania potrebbero replicare un paio di migliaia di volte simili esperienze? Se anche potessero, certamente le rispettive Confindustrie glielo impedirebbero, come avvenne in Italia al tempo della signora Lutz. E se anche i capitalisti - per una strana evenienza - accettassero, sarebbero, allora, gli elettori sindacalizzati a ribellarsi.
7.3 Il pianeta è divenuto un villaggio globale ad opera dellingordigia capitalistica. Se le forze dellumanesimo e la religiosità hanno un qualche ruolo, sarà importante passare a ununificazione politica. Se non ad altro, ciò potrà servire a far avvertire a ciascuno di noi la dimensione della specie, attualmente dispersa.
Il villaggio globale che noi auspichiamo si baserà sul sistema socialista e sullo scambio universale (della produzione privata). Ciò non impedirà che le singole formazioni sociali siano rispettate, che abbiano un enucleazione giuridica soggettiva e quella gestione sovrana delle risorse di cui dispone - per esempio - la singola famiglia nei confronti del mondo esterno. Al bombardamento dei bassi prezzi, ogni formazione politica dovrebbe poter opporre il bastione della piena occupazione.
Le formazioni sociali nazionali, specialmente nei luoghi dove piú antico è il peso della storia, vanno ripensate sulla base di tale concetto. Almeno questo ci suggerisce la nostra esperienza di italiani ingordamente colonizzati.
La funzione storica della nazione, consistente nel far affluire attraverso il prelievo fiscale i surplus agricoli verso il re, la capitale, lesercito, la burocrazia centrale, è superata, perché negli Stati moderni, a mantenere lapparato statale, i servizi civili e lintervento sociale sono i lavoratori dellindustria. La nazione di tipo storico, in cui la funzione dello Stato era quella dimpadronirsi dei surplus agricoli per conferirli alla borghesia moderna, è già da tempo in crisi e scomparirà del tutto una volta che si sia passati allautogestione e al controllo democratico dellimpiego dei surplus.
7.4 Se la base giuridica della società civile saranno i lavoratori autonomi e le società cooperative di lavoro, la funzione fiscale dello Stato si affievolirà, riducendosi lattività di governo al controllo giudiziario e amministrativo sulle relazioni di lavoro e sulla proprietà. Contemporaneamente si esalterà la funzione intellettuale degli organi rappresentativi, in relazione al compito di guidare lazienda-nazione. In tale ambito, lo spazio della solidarietà socialista dovrebbe essere riservato a enti affini allo Stato, ma autonomi.
Il quadro generale in cui ciascuno è lazienda di se stesso, il problema della marginalità aziendale (della disoccupazione) e della competitività esacerbata rivestirà un particolare interesse. È probabile che la giusta soluzione non stia tanto nellabbassamento della giornata lavorativa, quanto, piuttosto, nella istituzione di una leva obbligatoria di lavoro gratuito e migrante, al servizio delle formazioni sociali arretrate che ne facciano richiesta.
7.5 La civiltà occidentale ha avuto una sua costante nella legittimazione del lavoro subalterno, cioè nel potere, giuridicamente tutelato, di "comandare laltrui lavoro". Ma una costante uguale e contraria è stata la rivendicazione della piena, integrale égalité, che contestava quel potere. Ora, forse, è venuto il tempo che ogni uomo si misuri con laltro ad armi pari, mentre lassieme resta congegnato in modo che inavvertitamente - attraverso gli scambi - ciascuno collabori con laltro.
8.0 Post scriptum.
8.1 Quanto sopra esposto promana dalla formula marxiana del valore in una società capitalistica, che è:
c+s+pl=v
Cioè, c: lavoro morto acquistato con i soldi del capitalista (capitale), s: salari (anticipati dal capitalista), pl: pluslavoro (tempo del lavoro espropriato al dipendente, profitto del capitalista) = v valore (delle merci prodotte).
In tale formula c acquista s. La mai realizzata eguaglianza economica fra gli uomini (che è poi lunica umanamente realizzabile, essendo le altre diseguaglianze naturali) dipende da tale mostruoso fenomeno sociale.
Nella nostra formula, s acquista c. E ciò basta alla giustizia umana e come rimedio alla disoccupazione crescente. Essa è
lm+lv=v (lavoro morto piú lavoro vivo = valore)
e coincide con la simbolizzazione algebrica del lavoro autonomo dogni tempo, dove il produttore acquista gli strumenti di lavoro che adopera e le materie prime che impiega lavorando. In base a ciò, il prodotto è suo e può venderlo liberamente.
8.2 Il lavoro morto (o capitale) è la somma di molte o moltissime cose, anzi in pratica di una tale moltitudine di cose che anche i ragionieri piú pignoli non riescono a metterle analiticamente in colonna. Ci rientrano i suoli, gli edifici, gli arredi, le macchine, gli attrezzi, i brevetti, le tecnologie, le materie prime, ecc.
A causa dellevoluzione professionale della fabbrica, i costi di direzione e di organizzazione del lavoro, e cosí pure i costi di commercializzazione e quelli pubblicitari, le imposte, le tasse i contributi vanno assegnati a lv.
Dopo tale ricollocazione, a maggior ragione c è lavoro morto. Anche se c fosse composto esclusivamente da fermenti lattici, questi morirebbero se qualcuno non li immettesse nella sostanza in cui fermentare. Cosí pure il capitalista. Se mancano gli altri uomini a cui imporre delle azioni determinate, egli sarebbe a capo di niente e di nessuno, e la sua fabbrica un monumento di ferri che arrugginiscono.
Il trasferimento in lv di costi tradizionalmente assegnati a c è preteso da una piú equilibrata definizione della direzione e dirigenza aziendale, la quale è lavoro a tutti gli effetti (anche quelli della contabilità aziendale capitalistica). Per la precisione lavoro vivo che viene incluso nel valore prodotto. Le stesse attività di commercializzazione e quelle pubblicitarie - esasperate nellambito della competizione capitalistica, che tiene di vista soltanto il dominio monopolistico di un mercato - debbono ritenersi necessarie in un mercato articolatissimo e vastissimo, per il riconoscimento della merce da parte del consumatore.
8.3 Il valore finale del prodotto (v) computa, oltre al valore del lavoro vivo, le frazioni di lavoro morto impiegate per ottenerlo. In sostanza c è un dato fisso, non mutabile del valore. Quel che di c conta, per il calcolo di v, è la fattura del venditore che lha fornito al produttore attuale, a colui che lo mette in opera, che lo lavora.
Però tale circostanza non deve trarci in inganno. c è morto, ma è suscettibile dessere rivitalizzato. Il cotone diventa filo, il filo diventa tessuto, il tessuto diventa abito. Una macchina corrisponde a un certo numero di quintali di ferro, anche lolio combustibile è un
certo numero di quintali di liquido, ma una volta lavorati, messi allopera e in opera, si accoppiano con il lavoro vivo per dare il filo, il tessuto e labito. Sono strumenti di lavoro che lavorano, mezzi della produzione che contribuiscono a conferire al prodotto un certo carattere qualitativo e un dato valore.
Per la chiarezza del testo principale risulta utile disaggregare c (o lm), in
c1, c2, c3... cn
Anche s è disaggregabile in s1, s2, s3....sn
Di grande importanza, ai fini delle tesi sostenute nel testo, è la riemersione del valore (Osea Jaffe), quando il prezzo vi si è allontanato. Ciò si vede sempre piú spesso ad esempio con i tessuti, le scarpe, i computer lavorati in località dove i salari sono bassi e poi venduti in Occidente al prezzo delle corrispondenti produzioni occidentali.
8.4 In piú punti abbiamo sostenuto che il prezzo si accosta al valore, che gli ruota attorno come la falena alla lampada. Ma ciò ha senso soltanto nelle condizioni seguenti:
1) una piena libertà del mercato dalle influenze politiche,
2) la presenza di un tale numero di aziende venditrici e di acquirenti da assicurare la libera concorrenza,
3) leguale sviluppo delle nazioni.
Lassenza di tali condizionamenti falsa i prezzi e li porta - in piú o in meno - lontano dal valore, cosa che inietta ingiustizia economica e sopraffazione sociale nello scambio.
In effetti il mercato capitalistico è grandemente non libero e fondamentalmente ingiusto, in quanto nessuna delle tre condizioni vi è rispettata.
Vi sono falsificazioni alquanto note e altre volutamente nascoste. Per esempio, chiunque si rende conto che le tariffe professionali degli avvocati e procuratori sono un prodotto corporativo, quando vede che un giovane e ancora inesperto professionista incassa una cospicua parcella per un atto di routine. Egualmente è facile capire che la professione di notaio viene esercitata in regime monopolistico, quando si vede incassare dal professionista un centinaio di migliaia di lire per la semplice autentica di una firma.
Meno facile è capire che la rendita petrolifera è manipolata politicamente e il prezzo del petrolio viene tenuto al di sotto del suo valore usando le armi (guerra del Golfo).
8.5 Il concetto di valore, diffusamente impiegato sopra, si riferisce allunico corretto misuratore degli scambi. Evidentemente intrinseco allo stesso prodotto, esso, diversamente dal prezzo, che esprime istantaneamente landamento del mercato e nientaltro, è di non facile utilizzazione. Nonostante levidente complessità, interamente derivante dalla difficoltà pratica di misurare il prezzo del lavoro su base internazionale, esso resta sempre e comunque lago della bussola in qualunque forma di mercato.
9.0 Bibliografia