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L'Internazionale n. 97, 22.09.1995©

La storia araba di un’isola italiana

MUHAMMAD AREF, AL HAYAT, GRAN BRETAGNA

Pantelleria, piccola isola vulcanica piú vicina alla Tunisia che all’Italia, conserva ancora le tracce della dominazione araba. Qui “gli arabi hanno superato l’Occidente sul fronte delle tecnologie”. Il reportage del quotidiano Al Hayat

PANTELLERIA, 4 LUGLIO 1995
Volendo decantare le bellezze di Pantelleria, la sua piccola isola, la scrittrice italiana Rosanna Gabrieli si è ritrovata a raccontare l’eredità tecnologica lasciata dagli antichi arabi che la abitarono circa dieci secoli fa.
Il terreno fertile, strappato alla superficie dell’isola vulcanica, le coltivazioni a terrazze per la difesa del suolo e delle piante, i giardini rotondi protetti da pergolati di vite e da profumatissimi alberi di arancio e limone, le case di pietra dalle doppie pareti, le cupole, le riserve d’acqua in superficie e le cisterne sotterranee, il riciclaggio dell’acqua consumata per scopi agricoli. Tutto questo patrimonio tecnologico continua tuttora a essere usato dai circa 7.200 abitanti italiani dell’isola. Ma questa non è la sola eredità araba che l’isola custodisce: addirittura i nomi che sono stati dati a luoghi, villaggi, monti, frutti e utensili conservano un’origine araba. Sembra quindi perfetta la scelta di quest’isola per lo svolgimento del Festival dell’ambiente, della tolleranza e della pace, che si è tenuto alla fine di giugno.

La nascita di Venere

L’isola di Pantelleria, nel centro del Mar Mediterraneo, è quasi invisibile sulla carta geografica. Ha un’estensione di ottantasei chilometri quadrati e si trova a circa settanta chilometri da Ras Mustafa, sulle coste tunisine, e a centodieci dalle coste italiane della Sicilia. Questa posizione strategica ha fatto dell’isola, nel corso dei cinquemila anni della sua storia, un importante obiettivo di Stati e imperi, in lotta fra loro per il dominio del Mediterraneo. È stata occupata, infatti, in ondate successive, da greci, romani, fenici, cartaginesi, bizantini, arabi, normanni, francesi, spagnoli e italiani.
Gli arabi sono rimasti a Pantelleria, che chiamavano al-Qusayra (la piccolina), dall’853 al 1123 d.C., ma le trasformazioni che hanno introdotto sono paragonabili, per l’intensità della loro portata, all’opera dei vulcani che circa 4 milioni di anni fa fecero emergere dal mare quest’isola. I campi e i giardini che fioriscono intorno ai 50 crateri sparsi sulla superficie dell’isola, rendendola simile a una luna arata, i sentieri lastricati di pietre, le gradinate sui pendii delle sue cinquanta colline, i giardini circolari racchiusi da alti muri fatti con la lava vulcanica solidificata e che continuano a essere chiamati Giardinu Arabo [in siciliano nel testo], le abitazioni, che portano il nome di “dammuso” [dall’arabo dims, carbone o cenere; si riferisce al colore di queste case] e somigliano dall’esterno a cumuli di pietre piantate nel terreno, mentre dentro sono bianche e risplendono come l’interno di una conchiglia. Tutte queste innovazioni tecnologiche arabe fecero emergere Pantelleria dalle acque “come una Venere”, secondo l’espressione usata da Rosanna Gabrieli, “la dea dell’amore, che i miti greci raccontano essere nata dagli abissi del mare”.
Il rapporto di questa donna con la sua terra è simile a quello di un bambino che, lattante, fruga il corpo della madre e che conosce tutti i particolari del suo seno. Con questo amore Rosanna Gabrieli chiede a chi vuole contemplare la sua piccola isola di identificarsi con questa terra, questi campi, questi giardini. “Perché attraverso la semplice osservazione della natura è possibile capire i risultati sorprendenti che gli abitanti dell’isola hanno ottenuto, attraverso i secoli, nell’uso della semplice pietra per costruire una splendida bellezza artistica”.

Il cesello della natura

Infatti il turista di oggi, rinchiuso nei rapidi mezzi di trasporto, negli alberghi, nei ristoranti e in quant’altro comprende la “cultura turistica”, non è in grado di fruire appieno della bellezza del luogo. Per godere della visione della terra, del cielo e del mare, il turista ha bisogno di tornare ai suoi sensi: guardare, ascoltare, percepire fisicamente, muoversi, spostarsi. La Gabrieli consiglia di fermarsi “anche solo per un minuto sui viottoli che tagliano i campi e che circondano le case color carbone, fra le recinzioni intricate e ramificate di lava pietrificata, le porte dei campi e delle case, le alte mura dei giardini circolari. Bisogna spiare questa sorta di armonia e la bellezza di questi ‘complementi artistici’ all’ambiente, disegnati dall’uomo per soddisfare le necessità umane primarie, ma che sono diventate un autentico monumento all’arte della costruzione in pietra”.
Il turista deve dotarsi di una grande fantasia e tornare all’ottica degli antichi arabi, che ritagliarono i campi da questa terra, tempestata, come la superficie della luna, di crateri vulcanici. Le terre coltivate sono di forma quadrata, triangolare, semicircolare o a strisce, nella maggior parte con strane angolature, e si dispiegano intorno ai crateri vulcanici e sulle pendici delle colline rocciose per arrivare fino alle spiagge. È come se fossero stati cesellati dalla natura, giacché, seguendo la descrizione della Gabrieli, “i frutteti e i boschetti scivolano sulle spalle delle colline di pietra, e tornano perciò ad avere una forma completamente naturale: le terrazze coltivabili e le superfici livellate si adattano facilmente alla suddivisione in singoli appezzamenti”.
Senza usare calce o cemento, vengono impiegate pietre di ogni specie e forma per erigere dei muretti il cui scopo non è soltanto delimitare i confini dei campi, ma anche frenare l’erosione del terreno coltivabile, dovuta alla pendenza collinare.
Gli arabi usarono queste stesse pietre vulcaniche per costruire alti muri intorno ai giardini circolari. Questi giardini offrono una testimonianza unica della particolare cura che gli arabi avevano per gli alberi di agrumi: intorno a essi, infatti, innalzarono dei muri per proteggerli dalla furia del vento. In questo modo ogni frutteto non include piú di tre o quattro alberi di arancio, limone o mandarino.
Le soluzioni costruttive e ambientali raggiungono un’alta vetta creativa nell’uso che gli antichi coloni arabi fecero della pietra vulcanica per costruire le case “dammuso”, con le loro recinzioni interne, le stanze, i magazzini, le cantine, i pozzi sotterranei per la conservazione dell’acqua e, all’esterno, le stalle per gli animali. Queste case sono costituite prevalentemente da materiali naturali, diventando cosí parte intima del tessuto ambientale, e suscitando con la loro semplicità e con la loro accattivante bellezza la meraviglia degli osservatori.
Secondo la Gabrieli è impossibile conoscere a fondo l’isola senza abitare per un certo periodo nei dammusi che, attualmente, vengono affittati ai turisti o venduti al miglior offerente. Essi sono fra i pochi siti archeologici del mondo ancora sfruttati nella vita di ogni giorno e che non sono stati deteriorati dal passare dei secoli. Infatti, secondo la scrittrice italiana, esse sono “una delle testimonianze della genialità ingegneristica innovatrice degli autoctoni, i quali sono riusciti, malgrado le eccezionali difficoltà, a trasformare la lava vulcanica in un autentico gioiello architettonico”.
I dammusi sono formati da muri di spessore variabile tra gli ottanta centimetri e i due metri che vengono costruiti con l’impiego di una tecnica, la “cascita”, che nel nome reca ancora la sua origine araba. Questa tecnica prevede la costruzione di due muri esterni in pietra, uno parallelo all’altro, e il riempimento con pietrisco dello spazio vuoto tra i due; infine le tre parti vengono fra loro rinsaldate per mezzo di una terra, cui viene dato un nome anch’esso di origine araba, “taiu” [dall’arabo t“n, fango o argilla]. Questo triplice muro è un ottimo isolante acustico e una barriera contro il caldo. I muri esterni delle case hanno forme poligonali, i cui lati vanno dai 20 ai 10 metri, e suddividono l’abitazione in molte stanze.
Il ”taiu“ viene usato anche per rifinire l’esterno delle case, che prende la forma di una cupola. Queste cupole sono costruite con una pietra vulcanica paragonabile - per la sua resistenza, la sua leggerezza e la sua costituzione porosa che funge da isolante contro i rumori, il caldo e l’umidità - ai piú moderni materiali da costruzione. Il volume di ogni cupola corrisponde a quello della stanza sottostante. Le cupole assumono all’interno una configurazione arcuata dai diversi profili, come a formare degli angoli acuti, simili a tettoie di capanne, oppure cilindrica, oppure a vela, oppure ad archi incrociati.
Le alte cupole, con la loro superficie convessa, si conformano alla struttura dell’appartamento e conservano il fresco al suo interno. Ma hanno anche un altro ruolo: servono da cisterna per la raccolta di acqua piovana, il che costituisce un’importante fonte idrica a Pantelleria, dove le precipitazioni sono scarse. Queste acque vengono convogliate, per mezzo di alcuni congegni chiamati ”canalatta“ [in arabo qanawat], verso cisterne di immagazzinamento sotterranee; questi pozzi sono le uniche riserve d’acqua dolce che servono, attraverso secchi o sistemi idraulici autonomi, a trasportare l’acqua all’interno delle case.
La casa si divide internamente in piccole stanze: una sala che conduce alle altre stanze, una camera da letto principale di forma circolare, separata da delle tende da una cameretta usata sia per dormire che come ripostiglio. La cucina è posta al di fuori della zona abitativa e comprende un forno a legna chiamato ”furniddu“.
Le stesse tecniche costruttive vengono impiegate in altri edifici che si trovano al di fuori dell’abitazione, come le stalle e le cantine, nelle quali vengono conservate le provviste e le bevande. Di fronte alla casa si trova un vasto spiazzo attorniato da sedili di pietra, rivestiti di maiolica, generalmente coperti dall’ombra di pergole di vitigni.

Lo zibibbo

Gli abitanti dell’isola di Pantelleria continuano a conservare il nome arabo dell’uva [in arabo zibib], che loro chiamano ”zibibbo“. E con il nome gli abitanti conservano anche la tecnica di coltivazione che gli arabi hanno portato nell’isola, tanto che l’uva è diventata il piú importante prodotto agricolo. La scrittrice italiana ricorda che gli arabi avevano fatto dell’agricoltura, in particolar modo della coltura della vite, la piú importante risorsa economica dell’isola, ”e questo appoggiando progetti specifici, in linea con lo sviluppo della piccola proprietà terriera“. Gli arabi sistemarono le terre delle colline e dei boschi, liberarono ampie spianate per i frutteti e costruirono migliaia di muretti in pietra per insediarvi delle terrazze coltivabili.
Gli utensili arabi per l’aratura continuano a essere usati anche oggi, né sono state cancellate le vie di trasporto, da loro costruite, che collegano fra loro i campi distanti e facilitano il trasporto dell’uva a dorso d’asino, in canestri tuttora chiamati ”zimili“ [dall’arabo z”m“l]. Le tecniche di origine araba coprono anche la produzione del vino e l’essiccazione dell’uva in zibibbo, che rappresenta la piú importante esportazione di Pantelleria. Prima della fine dell’estate è possibile vedere i frutti della vite che vengono essiccati sotto il sole del Mediterraneo. E lo zibibbo di Pantelleria somiglia molto alla dolce uva delle regioni arabe, sebbene maturi in estate come tutta l’uva italiana e europea. La Gabrieli ricorre a parole poetiche per descrivere ”questa frutta baciata dal sole... dolce, calda e delicata... con un gusto che riempie a lungo la bocca... la cui origine è lontana e la cui storia è legata alla magia e alle antiche tradizioni dell’oriente... una fragranza famosa in tutto il mondo".

Chi è Khadigia?

Khamma, Bugeber, Siba, Bukkuram, Rakala. Questi sono i nomi dei piú importanti centri abitativi dell’isola di Pantelleria. E sono tutti chiaramente arabi.
Dietro ognuno di questi nomi c’è una storia mai sentita prima. La piú strana è quella connessa con la località chiamata Khadigia. Le leggende dell’isola narrano che il toponimo è collegato al nome della moglie del Profeta, Khadija, ma nessuno conosce il perché di questa denominazione. Si racconta che discenda da una ragazza, di nobile famiglia, nata il 17 novembre del 1876, di nome Angela. Questa ragazza, nell’immaginario degli abitanti dell’isola, è poi diventata Khadigia, regina di quel sito, che ancora conserva i ruderi di un castello. Come ha potuto Angela trasformarsi in Khadigia? Nessuno può rispondere a questa domanda, che Rosanna Gabrieli considera il piú misterioso segreto di quest’isola chiamata un tempo al-Qusayra e diventata oggi Pantelleria. (D. M.)


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